MILANO – Mia nonna non andò mai in villeggiatura. Il silenzio della campagna la opprimeva. Della Milano del suo tempo tutto amava; anche il rumore. Era nata in Via Orefici dove confluivano i palpiti della vita cittadina e dove i foresti passavano almeno una volta richiamati dalla fama dei nostri artigiani.
Il rumore della città come quello del mare si fonde in un rombo che giunge all’altezza dei campanili e delle torri, che sale e scende secondo la direzione e la forza del vento. Se vi fermate ad analizzare la voce del mare scoprite che essa raccoglie risa e pianti di onde, tonfi di pesci e risucchi di spiagge, accordi di insenature e tambureggiamenti di scogli.
Così la voce della vecchia città era composta da infiniti frammenti e di minuscoli fuggevoli accordi che mia nonna chiamava genericamente ‘rumori’.
Quei rumori duravano inalterati da secoli e l’avvento delle macchine nel primo Novecento è bastato a distruggerli. La città, con le contrade strette, le piazze verdeggianti, i terraggi, le antiche aie, i tendaggi dei mercati, gli sgembi dei bastioni, li aveva conservati e raccolti in un reliquiario di vecchi mattoni e di consunte arenarie.
La pavimentazione delle vie non conosceva la lucida e silenziosa superficie degli asfalti; ma si componeva di un selciato risonante, tagliato longitudinalmente dai trottatoi in pietra; su quei ciottoli, su quelle lastre i veicoli pubblici e privati snodavano il loro monotono rotolìo accompagnato dallo schiocco della frusta alle svolte e dal campanello appeso ai cavalli per evitare incidenti nelel giornate e nelle notti di nebbia. E’ allora che i minuscoli bar ambulanti avviati all’uscita dei teatri, specialmente nei dintorni di piazza del Duomo, offrivano la tazza di caffé ai brumisti, ai cocchieri in livrea, appoggiandola sul ginocchio dell’avventore accosciato.
Sull’acciottolato i carri rimbalzavano con grande fragore, i grossi cavalli da tiro puntavano gli zoccoli pelosi. Attraverso la città che aveva inaugurato i primi stabilimenti industriali si smistavano sonori carichi di metalli in vergelle, in barre, in pani (…).
La via del Naviglio era giorno e notte silenziosa, scorreva nella penombra violetta e grigia dell’antica cintura specchiando qui una sgretolata torre, là un pusterla: e soltanto quando usciva all’aperto verso la rossa chiesa di san Cristoforo rapiva il cicaleccio delle lavandaie e, quando s’incupiva nel canale della Vettabbia, raccoglieva il tonfo e il torbido guazzo dei conciatori di pelli. Lungo il Naviglio le osterie traboccavano, durante la buona stagione, col clamore e il cozzo dei giocatori di bocce, e con le interiezioni e le puntate dei giocatori di morra (…)
Mia nonna aveva una speciale simpatia per il fragoroso battere di martello che un magnano faceva risonare; altrove il tempo era misurato dal ticchettio secco dei materassai o dal piallare dei falegnami o dai colpi di accetta, dallo stridere delel seghe a specchio del Naviglio, nelle sciostre di legname, dove i barconi, provenienti dal Lago Maggiore, scaricavano tronchi e fascine ancora roridi di rugiada e profumati di foresta…
(Da ‘Milano fin de siécle 1890-1900′ abbiamo tratto il brano qui sopra pubblicato scritto da Raffaele Calzini 1885-1953, brillante collaboratore del Corriere della Sera. La foto è tratta da un quadro ‘Il Naviglio in Via Francesco Sforza’, particolare )