Ce ne sono tanti di grandi scrittori italiani dimenticati. L’altro giorno abbiamo pubblicato un brano di Raffaele Calzini sui rumori della Milano di fine Ottocento. Qui, Angelo Paratico, disegna la figura di un altro grande misconosciuto.
L’ultima edizione delle memorie del genovese Giuseppe Salvago Raggi (1866-1946) è uscita nel 2011, “Ambasciatore del Re. Memorie di un diplomatico dell’Italia liberale” presso alla casa editrice Le Lettere e parte d’una collana curata da Francesco Perfetti. La prima edizione di tale straordinaria opera risale però al 1976, in appendice al volume di Glauco Licata “Notabili della Terza Italia”, Cinque Lune, Roma.
Il nome del marchese Giuseppe Salvago Raggi in ambito diplomatico italiano è per molti versi mitico, anche se la parabola della sua vita ha poco da spartire con l’italietta umbertina o con quella uscita dalle rovine della prima guerra mondiale. Il suo stile scrittorio, per fortunati noi lettori, non è stato infettato dalla retorica dannunziana, che ha rovinato un’intera generazione di scrittori, ma egli ci pare più vicino allo stile dei suoi colleghi anglosassoni. Scrive senza alcuna retorica, in maniera piana e usando sempre una grande ironia quando si trova costretto ad accennare a sé stesso. Ecco l’incipit delle sue memorie: “Raccontare sessantasei anni di banalità equivale ad annoiare l’infelice che si accingesse a leggere. Perché allora scrivo? Perché ai vecchi piace raccontare, visto che non resta loro altro da fare; scrivo perché chi avesse in mano questo manoscritto potrebbe trovarvi un particolare atto a rettificare una versione errata, ed infine perché questi fogli capitando un giorno nelle mani di uno sfaccendato potrebbero divertirlo raccontandogli cosa nel 1933 si pensava di fatti svoltisi in quell’epoca che sarà allora lontana.”
Apparteneva a un’antichissima famiglia genovese e fu sempre avverso alla massoneria che nell’Italia umbertina aveva un potere spropositato, determinando nomine e assegnazioni, favorendo spesso gli incapaci e i corrotti. Le sue memorie, scritte nel 1933, non furono stese pensando alla pubblicazione: il suo fu un atto dovuto, non avendo mai tenuto un diario come facevano gli altri suoi colleghi nel mondo diplomatico.
Come un poeta che scrive sulla rena del mare durante la bassa marea, egli continuò a scrivere sino alla fine dei suoi giorni, senza mai pubblicare un rigo. I suoi articoli restano chiusi nell’archivio di famiglia, in attesa di essere riscoperti e messi in luce. Speriamo che questo avverrà presto, perché a parte queste memorie e un volumetto intitolato “Lettere dall’Oriente” non abbiamo altro. Quelle deliziose lettere le scrisse quand’era poco più che ventenne e fu mandato dal padre a fare quel viaggio, per farlo riprendere da una attacco di depressione.
Le fasi più interessanti delle sue memorie sono tre. Riguardano la sua nomina al Cairo nel 1894, come vice ambasciatore d’Italia. La sua azione a Pechino nel 1900, dove per 55 giorni restò chiuso, assieme alla famiglia, nelle legazioni assediate dai Boxer. E, infine, la sua opera come rappresentante dell’Italia a Parigi, nel 1919, per la Conferenza della pace.La parte relativa al Cairo è particolarmente interessante perché ci mostra tutti i maneggi e l’incoscienza che portarono al disastro di Adua, che sarebbe stato evitabile con un po’ più di attenzione e una minore arroganza. Per quanto riguarda la sua permanenza a Pechino, la lettura delle sue memorie ci ha confermato in quanto avevamo sempre sospettato: ovvero che si comportò bene, contrariamente a quanto si legge nei resoconti disponibili in lingua inglese, dove egli ci viene presentato come un damerino incapace di partecipare alla disperata difesa delle Legazioni sulle barricate. La verità è esattamente opposta e il lungo capitolo riguardante la sua partecipazione andrebbe tradotto e pubblicato in lingua inglese, per rettificare una volta per tutte la distorta lettura che si fa delle dubbiose fonti originali, tutte di parte, francesi e inglesi.
Salvago Raggi nel 1915 fu fortemente contrario all’entrata in guerra dell’Italia, ma una volta che fu dichiarata, abbandonò la feluca del diplomatico e s’arruolò come ufficiale d’artiglieria, andando a combattere in prima linea. Fu poi inviato a negoziare il trattato di Versailles e anche qui egli ci mostra, senza peli sulla lingua, l’incapacità e le meschinità dei negoziatori. Nel 1922, mezz’ora dopo che il giovane Benito Mussolini fu nominato primo ministro dal re, chiese a Giuseppe Salvago Raggi, prossimo alla pensione, avendo rifiutato nuovi incarichi, di spiegargli il complesso tema delle Riparazioni di guerra, poiché presto si sarebbe tenuta una seduta a Berlino. Mussolini gli disse: “Stamane posso darle un’ora del mio tempo e oggi due ore. Anche domani potrei vederla se ella ritiene non sia necessario partire stasera”.
Salvago Raggi rispose: “Ha ella presente le disposizioni del Trattato di Versailles sul tema delle Riparazioni?” Mussolini disse di no e aggiunse che non conosceva neppure quanto discusso alla Conferenza di Spa. Salvago Raggi cominciò allora dal principio e dopo mezz’ora Mussolini lo interruppe per riassumere i punti, questo stupì il vecchio diplomatico. Aveva capito! Poi Salvago Raggi continuò nella esposizione facendo anche considerazioni politiche alquanto azzardate, alle quali però Mussolini rispose sempre dandogli ragione e poi gli chiese: “Cosa pensa di quanto sta succedendo?” Salvago Raggi rispose con equale franchezza che era stato bravo fin lì ma il difficile era da venire, e lo paragonò all’apprendista stregone che fa scaturire l’acqua da un pozzo ma non conosce la formula magica per farla cessare. Entrato in confidenza, Mussolini gli chiese allora se avesse letto il telegramma di rifiuto mandato da Carlo Sforza. Salvago Raggi aveva avuto uno scontro con Sforza, quando aveva iniziato la sua carriera come suo sottoposto e lo stimava essere un poco di buono, pieno di sé. Mussolini gli mostrò la bozza della risposta che intendeva mandargli e gli chiese se l’approvava. Salvago Raggi l’approvò ma dal suo incontro uscì convinto di aver di fronte un uomo dotato di rapida comprensione ma, al contempo, che con lui “l’ultimo che parla ha sempre ragione.”
Angelo Paratico