TURBIGO – La capra è il simbolo dell’Istria e recentemente Piero Tarticchio è andato a presentare il suo libro, appunto, “La capra vicino al cielo” (Mursia, 2015), nel liceo italiano di Fiume dove ha ricevuto gli elogi dei professori. L’autore è un istriano, costretto all’esodo (uno dei 350mila) nel 1947, dopo che aveva perso sette familiari nella ‘pulizia etnica voluta da Tito. Da cinquant’anni racconta i crimini comunisti che l’interesse nazionale aveva tenuto nascosto. Fu Andreotti – secondo Tarticchio – a spiegarne il perché: “Non si parlò di foibe in Italia per cinquant’anni perché il Paese era stato distrutto dalla guerra e bisognava ricostruirlo e per farlo era necessario il coagulo di tutte le forze politiche. Se si fosse parlato di foibe tale unità politica, indispensabile per la ricostruzione, si sarebbe spezzata”.
La serata è stata introdotta dall’assessore alla Cultura Bruno Perrone (il sindaco Christian Garavaglia ha portato il saluto dell’Amministrazione), che ha presentato i relatori della serata: il professor Antonio Vinci, che ha puntato l’indice accusatore nei confronti del presidente Sandro Pertini che andò ad onorare la bara di Tito responsabile della pulizia etnica istriana; Alfredo Pallavisini, anch’egli esule istriano, che pubblicò nel 1976 con un collega giornalista, “2194 giorni di guerra”, un volume di 700 pagine sulla II guerra mondiale stampato in mezzo milione di copie e tradotto in 34 lingue e Piero Tarticchio presidente del Centro di cultura Giuliano Dalmata (che ha messo a disposizione anche la mostra).
La serata si è mossa sull’onda dei ricordi, sul fatto che gli esuli di Pola (su 30mil abitanti, 28mila lasciarono la città più industriale dell’Istria) portarono con sé una scheggia dell’arena romana e buttarono la chiave delle loro abitazioni nel mare Adriatico. “Fu anche una guerra di classe – ha detto Tarticchio – tra italiani borghesi che abitavano le città e gli slavi delle campagne, un conflitto del genere che si ebbe anche in Italia tra fascisti e partigiani”.
Poi ha ricordato la fine dello zio dopo l’8 settembre 1943: “ Don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovigno, fu prelevato dalla canonica, torturato, lapidato. Gli tagliarono i genitali e glieli conficcarono in gola. Questo fecero a mio zio che fu ritrovato con in testa una corona di filo spinato dai pompieri di Pola subito dopo l’armistizio”.
Il maresciallo Tito voleva l’Istria, ma non gli Italiani e alla fine ci riuscì: il 10 febbraio 1947 l’Istria passò alla Jugoslavia (ecco perché il ‘Giorno del Ricordo’ è il 10 febbraio) e nel 1957 nacquero tutte quelle realtà politiche (Slovenia, Croazia, Bosnia, Kosovo, Montenegro) che hanno animato la storia contemporanea. La volontà di potenza del maresciallo comunista (poi revisionista) costò molte vite italiane come ha documentato ne ‘L’isola Calva’, anche Giampaolo Pansa nel suo primo libro di denuncia “Il sangue dei Vinti”.
Il ricordo, poi, è andato alle tragiche storie di Giuseppe Cernecca (i partigiani titini, dopo averlo seviziato, gli staccarono la testa per recuperare i denti d’oro), Norma Cossetto (la studentessa violentata da 17 partigiani comunisti che poi gli conficcarono un pezzo di legno nella vulva!), alla strage di Vergarolla del 18 agosto 1946 (nove tonnellate di tritolo fatte esplodere nel porto di Pola per uccidere) che rappresentò l’ordine repentino degli slavi: “Italiani dovete andarvene!” E il 95% degli Italiani se ne andò. Avrebbero potuto rimanere, ma senza la proprietà delle loro abitazioni che erano state incamerate dallo Stato comunista. L’”Unità”, organo già allora del Pci scrisse: “I briganti neri dell’Istria non meritano la nostra solidarietà!”. Una vergogna postuma. “Con le nostre terre, le nostre proprietà accumulate nei secoli – ha continuato Tarticchio – abbiamo pagato i debiti della sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale. Ma non erano questi i patti”.
La storia di Alfredo Pallavisini, invece, è stata di un altro tenore: “Mia madre scappò da Pola nel settembre ’44 approfittando di una colonna di SS in ritirata verso Tarvisio”. Sono nato a Pontebba (Udine) il 10 settembre 1944. I miei nonni materni ebbero 19 figli e solamente due diventarono adulti. Ha vissuto dal 1950-56 nel campo profughi di ‘Casermette’ a Gorizia, poi sono andato in seminario dove ho potuto avere una istruzione che mi ha permesso, in seguito, di laurearmi alla Cattolica di M ilano”.
LA QUESTIONE STORICA. Il trattato italo-iugoslavo di Rapallo del 1920 aveva incluso nei territori sotto la sovranità italiana una popolazione di circa 500mila slavi. In queste regioni il fascismo aveva condotto una politica di italianizzazione forzata, agendo con misure fortemente repressive. Successivamente, le forze partigiane jugoslave – negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale – avevano occupato ampie porzioni di territorio italiano. A guerra finita, con gli anglo-americani furono individuate una zona A (Trieste) e un zona B sotto due differente amministrazioni (italiana e jugoslava) che, dopo il compromesso costituito dal Territorio Libero di Trieste del 1947-1954 si arrivò al trattato di Osimo del 1975. Poi la storia è andata avanti e oggi si può andare in Istria senza nessun problema in quanto fa parte dell’Unione Europea.
FOTO da sx Piero Tarticchio, Bruno Perrone, Alfredo Pallavisini