Qualcuno lo reputa colui il quale, nella narrativa del ‘900, ha esercitato l’influsso più profondo e durevole sugli autori a venire. Per quanto riguarda la poesia, Eugenio Montale é l’immagine di un radicale pessimismo e diciamo “immedicabile rifiuto”, quando racconta quel che della e nella vita, fa soffrire l’essere umano. Ne é, ovviamente, un profondo e vasto conoscitore ed è per questo che ciascuno si sente rappresentato, in questa epoca di ottimismo a tutti i costi. Da un lato é certamene giusto ricercare il bello, dall’altra, é una vera amputazione fingere che no esistano cose più grandi di noi… Per tornare a Montale, si trovano in lui i sintomi di una certa voglia di non-vivere. Ma attenzione: alla presenza dell’amore, per contrasto, verso la vita, fame di conoscere, di trovare un’altra strada. Lo conosciamo di nome, come un maestro, anzi “il maestro”, dell’anima, probabilmente.
Scrivono di lui “La poesia di Montale in tanto suo dubbio sull’esistenza ci aveva appassionati in gioventù alla vita.”
“Il Raschino. Credi che il pessimismo sia davvero esistito? Se mi guardo d’attorno non ne è traccia. Dentro di noi, poi, non una voce che si lagni. Se piango è un controcanto per arricchire il grande paese di cuccagna ch’è il domani. Abbiamo ben grattato col raschino ogni eruzione del pensiero. Ora tutti i colori esaltano la nostra tavolozza, escluso il nero.”