Il nostro Angelo Paratico racconta un evento che assomiglia molto a quanto sta avvenendo nel canale di Sicilia: più di tanti immigrati non si possono ospitare.
Saigon cadde il 30 aprile 1975. La repressione e la crisi economica che seguirono spinsero un milione di vietnamiti a fuggire. Si calcola che sino al 1985 circa centomila persone furono passate per le armi senza processo. Le immagini di disperati, stipati su barconi in procinto di affondare, fecero il giro di mondo. Li definirono, con una punta d’ironia i ‘boat people’.
Basta guardare quelle vecchie fotografie per leggere nei loro occhi tutta la loro disperazione, il loro terrore. Si vedono donne che stringono i propri bambini al petto, ma quanti di loro morirono non lo sa nessuno. Decine di migliaia sparirono fra le onde o furono brutalizzati e derubati dai pirati, dopo che avevano pagato con il poco oro che possedevano un posto in una di quelle precarie bagnarole che affrontavano l’oceano Pacifico. Dapprima furono accolti bene nei paesi vicini, ma a partire dal 1979 il loro numero aumentò e la simpatia finì.
Una delle loro mete preferite fu la colonia britannica di Hong Kong. Navigavano vicini alla costa cinese, sfuggendo per quanto possibile alle rapine e alle estorsioni e, dopo aver passato l’isola di Hainan, attraccavano fra i grattacieli di Hong Kong.
A chi ha almeno 50 anni quelle immagini tragiche ricordano quanto sta oggi accadendo nel canale di Sicilia.
Nel 1975 gli americani riuscirono a evacuarne circa 140.000, pescando fra i propri più stretti collaboratori, poco prima della caduta del Vietnam del Sud. Ma per rendersi conto del fatto che non riuscirono a portar via tutti basta guardare la celebre foto di Hugh Van Es, che mostra una lunga fila di persone che tentano di entrare in un fragile elicottero posato sul tetto dell’ambasciata Americana di Saigon, oppure i filmati che mostrano degli uomini precipitare dai carrelli degli aerei in fase di decollo a Danang.
A Hong Kong i primi rifugiati sbarcarono il 4 maggio 1975 a bordo della nave danese Clara Maersk, che li aveva raccolti in mare. Erano 3743 e furono rapidamente distribuiti in altri paesi, che li accolsero bene. Ne arrivarono pochi sino al 1979, anno in cui scoppiò la guerra fra il Vietnam e la Cina.
La Cina e gli Stati Uniti erano contrari all’intervento vietnamita in Cambogia contro i Khmer Rouge e il presidente Deng Xiao Ping volle dare una lezione agli ex alleati, dicendo al presidente Americano Jimmy Carter, durante una sua visita a Washington, che: “Il bambino è capriccioso, ha bisogno d’una sculacciata.”
L’esercito cinese entrò in Vietnam del Nord il 17 febbraio 1979, occupò alcune città e il 16 marzo 1979, dopo aver dichiarata aperta la via sino ad Hanoi, fece dietrofront, ritornando in Cina. In termini umani i cinesi pagarono un prezzo altissimo: dai 50-70.000 morti, ma con quel loro gesto dissero a Mosca che loro, con gli alleati della Russia, facevano ciò che gli pareva. L’attacco cinese mise in grave pericolo la minoranza etnica cinese residente in Vietnam. Erano conosciuti come gli Hoa e furono visti come una quinta colonna e perseguitati. Inoltre la fragile economia vietnamita entrò in crisi e, dunque, una grossa ondata di rifugiati si riversò in mare, provocando una controreazione da parte delle nazioni vicine, come la Tailandia, la Malesia e Singapore che chiusero i confini, impedendo addirittura ai ‘boat people’ di sbarcare.
Hong Kong invece fu dichiarata ‘port of first asylum’ un porto franco di sbarco e questo fece aumentare il numero di arrivi, soprattutto dopo che la BBC, per via d’un malinteso, annunciò che per 3 mesi a Hong Kong sarebbero stati accettati tutti e poi sistemati in altre nazioni. Questo provocò un picco di sbarchi nel 1980, con 68.700 richiedenti asilo.
Il governo di Hong Kong prese delle contromisure: iniziò a trasmettere continuamente un messaggio radio in lingua vietnamita, per dissuaderli. Questo messaggio prosegui’ sino agli 90 e molti vecchi residenti di Hong Kong lo ricordano ancora. Iniziava con la frase ‘bat lau dung laai’ che significa: “D’ora in avanti…” per dire che la nuova politica del governo di Hong Kong stabiliva il ritorno coatto di tutti i rifugiati economici. Hong Kong è un arcipelago costituito da 276 isole e isolette e su alcune isole furono costruiti dei grossi campi di raccolta, con filo spinato, baracche, bagni e scuole per i bambini.
La Cina, che aveva già manifestato l’intenzione di riprendersi Hong Kong nel 1997, disse chiaramente al governo di Hong Kong che quei vietnamiti non li voleva. Si aprirono trattative con il Vietnam per convincerli a riprendersi indietro tutti i rifugiati economici, con la garanzia che non li avrebbero puniti e perseguitati.
Il governatore di Hong Kong, Sir David Wilson, un raffinato sinologo, diede inizio ai rimpatri forzati nel 1989. Vi furono vari incidenti nei campi, con rivolte e incendi, ma non vi furono mai ripensamenti su quella linea adottata da Wilson, che fu tutto sommato corretta, anche se fu aspramente criticata da varie associazioni umanitarie. In certi casi nei campi si usò una durezza eccessiva con quei disgraziati che, anche se in patria non erano stati perseguitati, erano comunque alla ricerca di una vita migliore per sé e per i propri cari. Il campo più grande di Hong Kong, quello di Whitehead, che nel momento di maggior crisi aveva contenuto 40.000 vietnamiti, fu chiuso nel giugno del 1997.
La magnitudine del fenomeno italiano, ovvero europeo, è senza dubbio maggiore di quello di Hong Kong ma si potrebbe studiare l’esempio di Hong Kong e poi decidere un piano d’azione ad ampio raggio. È infatti evidente che la linea seguita dal nostro governo non è logica e non reggerà nel lungo termine. Non si possono lasciare entrare tutti questi rifugiati, per la gran parte economici, senza controlli e senza verifiche. Certo, una volta in mare, bisogna aiutarli ma vanno dissuasi dal partire e una volta stabilito che non sono dei perseguitati vanno rimandati nel loro paese. Se il loro paese non li riaccetta, bisognerà prendere delle contromisure di tipo economico, incentivandoli a riprenderli.
Eppoi non bisogna far giungere messaggi contradditori, come si fa ora, facendo credere che una volta sbarcati troveranno un lavoro e una sistemazione dignitosa, perché questo non è vero, tant’è che il nostro governo non li può neppure garantire a noi cittadini italiani.
Questo è un fenomeno che va gestito, non subito, che va pianificato, guardando lontano. Secondo i ritmi attuali sbarcano circa duecentomila migranti all’anno, cosa s’intende fare di qui a 10 o 20 anni? È evidente che il loro numero aumenterà, dato che esiste un serbatoio enorme di rifugiati che si chiama Africa.
Come verranno gestite queste città non italiane, dal punto di vista logistico, lavorativo, sociale? Il fatto poi che la gran parte degli immigrati è di religione musulmana complica ulteriormente le cose, questo richiederà maggiori spese e una maggiore pianificazione per evitare la loro ghettizzazione.
Angelo Paratico