Buona parte della montagna di carte che ho raccolto nella mia vita la sto portando all’Ecocentro, poco alla volta, con un’azione costante. Le faccio passare, rileggo fatti e momenti passati. E’ un lavoro che fanno tutti i ‘vecchietti’ quando arrivano vicini al trapasso ed hanno il tempo (che prima non c’era) di ordinare le carte, le fotografie, del tempo vissuto.
Ho fatto il cronista per decenni e, il mio archivio, non ho mai smesso di aggiornarlo. Anche ora, che non serve più, perché buona parte del mio tempo la passo a fare il nonno, conservo la memoria degli eventi, perché il ‘mestiere’ si è infiltrato nel mio modo di vivere.
Dicevo che, tra le tante carte pronte per andare al macero, mi sono cadute in terra due fotocopie gialle…C’era uno scarabocchio di mia mano, illeggibile, probabilmente voleva dire che valeva la pena di leggerlo e così ho fatto, emozionandomi nella descrizione della figlia che racconta l’avvicinarsi della morte del padre.
CIO’ CHE RESTA DI UN UOMO – 1° concorso di prosa e poesia ‘Don Carlo Prandi’, opera di Marinella Restelli di Arconate.
“Ho capito che te ne stavi andando un pomeriggio di febbraio. Improvvisamente. Un colpo violento in pieno petto, le gambe molli, la sensazione di essermi svuotata del sangue e delle forze e la verità evidente e crudele dipinta sul tuo viso smagrito, emaciato e cupo.
Te ne stavi seduto come sempre sul divano del mio salotto e sembravi attento al programma di cartoni animati che i miei figli, accovacciati per terra e appoggiati alle tue ginocchia, ti obbligavano a seguire quotidianamente, ma non eri già più con noi. Avevi persino dimenticato di sputare le solite, drastiche sentenze sui programmi televisivi e i metodi educativi dei genitori moderni, inseguivi le tue preoccupazioni, la realtà che tacevi da mesi e che cercavi di vincere con la forza di volontà e qualche blando sciroppo.
In un mattino tutto mi fu chiaro: i tuoi inspiegabili malumori per i giochi rumorosi e gli scherzi dei bambini, i secchi rifiuti ad accompagnarli ai consueti appuntamenti, la riluttanza a guidare l’automobile, a salire le scale, ad aiutarmi a portare una borsa pesante, il bisogno continuo di appoggiarti e di sederti, la stanchezza e la spossatezza dei tuoi gesti.
Avevo chiuso gli occhi fino ad allora davanti a quella cosa mostruosa che era la tua malattia e che tu avevi cercato in tutti i modi di camuffare e allontanare da te e da noi. Ora la vedevo manifestarsi inesorabile e sapevo con assoluta certezza, ancora prima di aver consultato un medico, che sarebbe stata fatale e senza rimedio. Anche tu lo sapevi, lo avevi saputo fin dal suo insorgere e ti dibattevi in una angosciosa solitudine, le viscere contratte e il respiro mozzo per la paura.
Quella sera quando ti sei alzato dal divano per tornare a casa, ho spiato il tuo incedere lento, la tua lunga pausa sull’ultimo scalino, la tua immensa fatica per arrivare all’auto e ho deciso che non potevo rimanere inerte e passiva ad attendere che i miei giorni si vuotassero della tua presenza e del tuo sostegno.
Non potevo fermare la malattia e neppure la tua vita, ma dovevo trovare un modo per salvare tutto quello che avevi costruito, che avevi amato, dovevo ritrovare il tuo passato, l tua famiglia, le tue radici e inserirti in quel contesto di cui anch’io, sangue del tuo sangue, facevo parte e che doveva continuare anche dopo di te e i tuoi discendenti.
Non ne sapevo molto, le mie conoscenze si fermavano ai tuoi genitori e nei giorni che seguirono ti assillai con mille domande che non ottennero risposta. Eri diventato sospettoso e insofferente e alle mie richieste reagivi con sgarbo, puntandomi gli occhi addosso e rifiutandoti di parlare. Non volevi parlare né del passato, né del presente, specialmente della tua salute. Ricorsi ad una vecchia zia, sorella di tua madre. Andai a trovarla a tua insaputa, ma mi ritrovai di fronte a due occhi vuoti, perduti oltre i vetri della finestra e a un sorriso stanco. Potevo contare solo sulla memoria della mamma e sul vago ricordo dei tuoi racconti che avevo udito da bambina.
Pensai alla famiglia di mio marito (dove l’albero genealogico, scritto su una pergamena, risaliva al Cinquecento e terminava con i miei figli, ndr).
Il tuo emergeva dal nulla, breve, banale e senza radici, destinato a finire nel nulla. Ma i miei figli, che avevano ereditato uno dei nomi dorati della pergamena, erano anche parte di te e volevo a tutti i costi che anche il tuo nome avesse un posto ben definito nella loro vita e nel loro cuore, quando tu non saresti più stato al loro fianco a condividere i pomeriggi invernali, contestando assonnato i loro programmi preferiti o i caldi pomeriggi di vacanza accompagnandoli nelle passeggiate in bicicletta in mezzo alla campagna in cerca di rane e di pesci. Mi chiedevo però, senza riuscire a trovare una risposta, dove si potesse incidere la memoria, le parole, il ricordo di chi non ha pergamene e casato a cui affidare la propria storia.
Sei uscito di scena senza fare troppo rumore, senza tragedie e bruscamente, come era nelle tue abitudini. Te ne sei andato una bella mattina di giugno, in un’alba radiosa e fresca, eludendo la stretta sorveglianza a cui ti avevo sottoposto per tutta la notte. Hai atteso che mi vincesse la stanchezza e la voglia di una boccata d’aria e mi ha lasciato senza neppure darmi la possibilità di salutarti un’ultima volta. Ho persino pensato che volessi punirmi per averti costretto a ricoverati in ospedale senza tener conto della tua volontà di combattere da solo e senza l’aiuto della scienza, una battaglia che consideravi già persa. Non udivi più i rumori di questo mondo quando ho raccolto dalla barella in corsa verso l’ascensore il tuo ultimo sussulto di vita.
A parte la mamma, ognuno di noi ha continuato la sua abituale esistenza, ha mantenuto la sua serenità e così doveva essere. Così era stato anche quando se ne andarono i tuoi. “E’ venuto il loro momento”, si era detto. “Si è compiuto il loro destino, segnato inesorabilmente fin dall’inizio”.
Di quella prima, triste esperienza conservo solo un senso di disagio, di fastidio, più che altro perché l’avvenimento veniva a scombussolare le abitudini e la tranquillità quotidiane. Ma l’altro giorno, inaspettatamente, ho avut la risposta che tanto cercavo e la certezza che i tuoi nipoti ti ricordano ancora con nostalgia, con infinita tenerezza, a prescindere dall’albero genealogico e dal nome.
E’ venuto lo sfasciacarrozze a prendere la tua automobile per la demolizione. Era una decisione che avremmo dovuto prendere da tempo ma nessuno voleva mettere in atto perché la tua 127 azzurra che, forse per vent’anni, aveva scorrazzato tutti e alla quale tenevi in modo quasi morboso, era considerata una parte di te.
Ho visto i miei figli infilarsi nell’abitacolo e uscirne subito dopo con le mani cariche di oggetti che ti erano appartenuti e che avevi usato, perfino la pessuola che serviva per pulire i vetri perché “conservava il tuo odore” e gli adesivi attaccati al cruscotto perché “li avevi incollati per loro” quando erano piccoli.
Insieme abbiamo detto addio ad un ammasso di lamiere arrugginite e scritto a lettere d’oro il tuo nome nel nostro cuore”.