Turbigo, un paese di 7000 ca. abitanti che sorge su una delle sponde del fiume Ticino, vanta una storia locale ricca e preziosa che ha origine fin dall’epoca longobarda.
il 13 febbraio di ogni anno, infatti, ricorre la memoria dei santi Aimo e Vermondo Corio, conti di Turbigo.
Per illustrare questa piccola curiosità sulla storia del nostro paese, ci affidiamo alle parole del giovane storico locale Carlo Azzimonti.
Un articolo, già pubblicato sul bollettino parrocchiale di novembre, ci accompagna alla scoperta di una delle cornici affrescate nella navata centrale della chiesa parrocchiale.
Buona lettura!
Entrando nella chiesa Beata Vergine Assunta, dirigiamoci in avanti, nella navata centrale, in corrispondenza della terza campata dall’ingresso, sulla destra.
“Ci troviamo di fronte ad una coppia di santi, e lo schema con cui viene organizzata la rappresentazione è differente dalle altre cornici. Mentre il consueto angelo, all’interno di un grande sole, è posto in centro alla scena (e non nel lobo superiore), in questo caso troviamo due cartigli che identificano singolarmente i protagonisti: S. AYMON e S. VERMONDOS. La sesta ed ultima cornice è dunque dedicata alla memoria dei SANTI AIMO e VERMONDO CORIO, ai quali la tradizione medievale attribuisce il titolo di conti di Turbigo. La narrazione viene bloccata in un momento di grande suspense. Nel lobo inferiore fa la sua comparsa un branco di cinghiali inferociti, raffigurati nell’atto di svellere le radici di due alberi. Al di sopra di tali arbusti trovano riparo i Santi, che per il precario equilibrio si aggrappano con forza agli esili rami; Aimo, sulla sinistra, osserva con timore l’imminente pericolo e lo indica al fratello Vermondo (sulla destra), che al contrario volge lo sguardo verso il cielo per invocare la protezione divina. Gli abiti tradiscono l’origine nobiliare dei due giovani, entrambi abbigliati con tuniche sontuose e mantelli dai colori sgargianti, ed in particolare si può notare come Vermondo indossi l’armatura con una spada legata in vita. In secondo piano, poco al di sotto del grande sole, si apre una radura, che ci consente di intravedere un piccolo oratorio campestre con una finestra circolare nel frontespizio. La celeberrima vicenda narrata dal pittore Albertella si riferisce al momento della conversione di Aimo e Vermondo, che abbandonando agi e comodità, scelsero di condurre una vita di preghiera. Approfondiamo quindi la vita dei due protagonisti, cercando di riflettere sul significato nascosto di quanto abbiamo descritto.
Il più antico documento che riporta la “leggenda” di Aimo e Vermondo è conservato presso la Biblioteca Trivulziana di Milano, e consiste in un codice miniato trecentesco, composto da autore ignoto e miniato da Anovelo di Imbonate per incarico di Fiorina di Solbiate, canevaria del monastero di Meda dal 1357 al 1368. Un secondo codice “gemello” è conservato presso il Paul Getty Museum di Malibu, in California. AIMONE e VEREMONDO, conti di Turbigo, meglio conosciuti come Aimo e Vermondo, sono due giovani appartenenti alla nobile, ricca e potente famiglia dei Corio. Vivono probabilmente intorno al secolo VIII, cioè all’epoca della transizione tra la dominazione longobarda di Desiderio e quella dei Franchi di Carlo Magno, e i loro nomi hanno una chiara origine longobarda. La biografia dei Santi Aimo e Vermondo non è particolarmente dettagliata. La tradizione ce li descrive come giovani aristocratici che conducevano una vita lussuosa, sempre pronti ad ostentare le proprie ricchezze. Un giorno i due fratelli partono per una battuta di caccia al cinghiale, circondati da amici e servitori. Mossi dall’impeto e dalla frenesia, si allontanano dal gruppo, e una volta soli nel silenzio del fitto bosco vengono assaliti da un branco di cinghiali inferociti. Presi alla sprovvista, senza rinforzi e senza i loro destrieri, Aimo e Vermondo tentano di mettersi al sicuro arrampicandosi al di sopra di due alberi d’alloro, posti vicino ad un’edicola votiva dedicata a San Vittore martire. Tuttavia i cinghiali non desistono, e tentano di abbattere gli arbusti. Isolati, indifesi e deboli di fronte alle avversità, Aimo e Vermondo comprendono la vacuità della loro esistenza, realizzando come il potere, il denaro e il prestigio non siano in grado di salvarli. Sentendosi prossimi alla fine, i due nobili fanno voto alla Vergine Maria e a San Vittore martire, promettendo, in cambio della loro incolumità, di donare ingenti ricchezze ai poveri e di edificare in quel luogo un monastero. Miracolosamente i cinghiali desistono dal loro intento, consentendo ai fratelli Corio di poter discendere sani e salvi dal loro riparo. In seguito a quanto accaduto i due giovani tengono fede a quanto promesso, e dopo aver fondato il monastero benedettino di Meda (dedicato a San Vittore) vi trascorsero il resto della loro esistenza, dedicandosi al servizio dei più bisognosi. I fratelli Corio vennero sepolti nella chiesa del monastero, e qualche tempo dopo la loro morte si verificarono eventi prodigiosi attribuiti alla loro intercessione, spingendo la Chiesa ad istruire la pratica per la loro canonizzazione. Venerati anche da San Carlo Borromeo e dal Cardinale Federico Borromeo, i due Santi furono da sempre oggetto di una devozione particolare. La memoria liturgica ricorre il 13 febbraio.
La vicenda di Aimo e Vermondo si colloca all’interno di una serie di leggende auree compilate tra il XII e il XIV secolo da parte di agiografi che puntavano a dare risalto a storie di ricchi che, come Francesco d’Assisi, dopo aver donato ai poveri tutte le loro sostanze, decidevano di servire con umiltà i più bisognosi. L’interesse per questi racconti nasceva dal fatto che un ricco o un nobile convertito destava maggior interesse all’interno della popolazione, rispetto a quanto sarebbe potuto accadere nel caso di un povero contadino, già abituato a non possedere nulla. Inoltre queste leggende servivano a contrastare la diffusione dei movimenti ereticali pauperistici, illustrando la via corretta che un cristiano deve seguire. Di primo acchito la narrazione potrebbe sembrare simile a tante altre, tuttavia bisogna ricordare come in epoca tardomedievale prevalesse il gusto per i racconti di stampo moralizzante, tesi a trasmettere un messaggio catechetico complesso ad una popolazione prevalentemente analfabeta, ma in grado di decodificare il contenuto del linguaggio simbolico. Anche nel nostro caso, la leggenda aurea dei Santi Aimo e Vermondo può essere considerata una vera e propria allegoria, intessuta di una fitta rete di simboli che ora tentiamo di analizzare. La caccia, passatempo preferito dai nobili ed espressione di forza e coraggio, è da intendere cristianamente come LA RICERCA DELL’ESSERE SUPREMO. Per raggiungere la perfezione è però necessario esercitarsi nella pratica delle virtù cardinali: perciò la forza fisica equivale alla FORTEZZA MORALE che ogni uomo deve possedere per raggiungere lo scopo prefissato, mentre l’astuzia, il silenzio e il dominio delle emozioni, cui il cacciatore è costretto durante le lunghe attese, rappresentano la TEMPERANZA. La tradizione narra che Aimo e Vermondo, spinti dall’impeto proprio della giovane età, isolati dal gruppo di amici e servitori, vennero attaccati da un branco di cinghiali. Questo passaggio potrebbe essere paragonato alla RICERCA DI DIO, un anelito inconscio che si sviluppa nel profondo dell’anima. L’uomo però, spinto dallo spasmodico desiderio di correre lontano dalle cose del mondo, non riesce ad interpretare correttamente i “sintomi” di questa tensione interiore. Per convertirsi in modo autentico è necessario quindi passare attraverso l’esperienza del DESERTO (il bosco fitto e inaccessibile), il luogo del silenzio che amplifica la voce dell’Anima. Il CINGHIALE (come il maiale) è invece espressione di voracità, smodatezza, ignoranza ed egoismo, e l’immagine del demonio: così come il cinghiale si accresce nel fango, anche il Diavolo prospera di fronte alla sporcizia morale e al peccato che suscita nell’uomo. Da ultimo compare l’ALLORO, pianta sacra con cui gli antichi solevano cingere il capo di atleti e letterati, da sempre considerato l’albero della GLORIA: la fuga di Aimo e Vermondo al di sopra di arbusti di alloro richiama dunque l’ELEVAZIONE DELL’ANIMA A DIO. Alla luce di tutti i simboli elencati ci appare più chiaro il reale significato della vicenda di Aimo e Vermondo. L’uomo che aspira Dio deve forgiare la propria anima con la Fortezza e la Temperanza (la caccia), passando obbligatoriamente attraverso l’esperienza del silenzio (il bosco/Deserto). Il periodo di solitudine non è però scevro da pericoli; è proprio nel Deserto che il Diavolo (cioè il cinghiale che scava le radici dell’albero) tenta l’uomo con miraggi di ricchezza e vanagloria, con l’obiettivo di minare la solidità della base su cui si fonda la Fede, compromettendo irrimediabilmente il percorso fin qui compiuto. Unica via di uscita è l’ascesa dell’anima verso la Verità, meta che si può raggiungere solo chiamando in soccorso la Vergine Maria, nostra avvocata presso Dio, madre benigna e consolatrice, immagine della Chiesa che non abbandona i suoi figli. Oltre all’aiuto di Maria serve un modello concreto da emulare, e in tal caso viene scelto San Vittore, che in quanto martire può essere considerato uno tra i più fulgidi esempi da seguire per raggiungere la santità. Ovviamente anche la figura di San Vittore non può essere casuale: il nome latino “Victor” significa infatti “vincitore”, e questo dato sta ad indicare la vittoria sulla malvagità ottenuta grazie al martirio (la forma di santità più alta per un cristiano). Il percorso cominciato tra mille avversità può quindi dirsi concluso e la Santità, cui ogni cristiano deve aspirare, è la giusta ricompensa per le sfide che si sono affrontate.
La devozione nei confronti di Aimo e Vermondo non figura tra gli antichi culti turbighesi, e venne riscoperta inizialmente grazie all’infaticabile don Pietro Bossi, che avviò le prime indagini sui due Santi. L’anno di svolta fu però il 1932, quando il cardinale Ildefonso Schuster, Arcivescovo di Milano, compì una ricognizione delle reliquie. Sempre in quell’anno, grazie all’interessamento del parroco don Edoardo Riboni, si riuscì a ottenere la traslazione di parte dei resti dal Monastero di Meda alla Parrocchia di Turbigo, dando il via a solenni festeggiamenti. Nel “Chronicum” del 1932 troviamo infatti così annotato: “Turbigo ignorava la nascita dei SS. Aimo e Vermondo, due fratelli dei Conti Corio. Il Parroco col Card. Schuster e coi documenti alla mano poterono accertarsi che questi santi sono oriundi di Turbigo. Si fecero feste grandiose per il trasporto delle Reliquie. Venne il Vicario Generale, Mons. Tredici, che poi venne nominato Vescovo di Brescia, compagno di scuola (del Parroco). I Turbighesi hanno tanta devozione a questi Santi”. Anche i registri dell’anagrafe parrocchiale testimoniano il progressivo attaccamento della popolazione al nuovo culto, come ci viene ricordato dai numerosi “Aimo” e “Vermondo” battezzati in quegli anni. Per ufficializzare in modo definitivo la nuova devozione si decise dunque di inserire i due Santi all’interno del ciclo pittorico della parrocchiale, collocando la grande cornice proprio di fronte all’altare, in posizione speculare rispetto ad altri due fratelli santi, Cosma e Damiano.
CARLO AZZIMONTI
BIBLIOGRAFIA
- Bibliotheca Sanctorum, Roma, Città Nova Editrice, 1967, vol. I, p. 641.
- GIUSEPPE LEONI – PAOLO MIRA – PATRIZIA MORBIDELLI, La parrocchia e i suoi parroci. Quinto centenario di fondazione parrocchia Beata Vergine Assunta, Turbigo, 1995.
- PAOLO MIRA, La Chiesa della Beata Vergine Assunta di Turbigo, Turbigo, 2002.
- PAOLO MIRA, Aimo e Vermondo, due santi della nobiltà longobarda, FONDAZIONE Abbatia Sancte Marie de Morimundo, 2004, anno XI.