Cari amici,
come anticipato nella premessa pubblicata il 12/2/2017, in questa prima uscita di “FM – Fuori Mercato” parlo di due opere di Daniele D’Antonio che consistono in delle originali e complesse reinterpretazioni dei seguenti quadri: la “Giuditta che decapita Oloferne” di Artemisia Gentileschi e la “Lezione di anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt Harmenszoon van Rijn. Le due opere che trovate di seguito riprodotte appartengono alla serie Paths, che in tutto consta di cinque lavori.
Come promesso proverò con parole semplici a spiegare perché considero la serie Paths, e in modo particolare queste due opere, ad elevato valore intrinseco; ossia delle opere che al di là delle quotazioni di mercato sono estremamente interessanti dal punto di vista artistico.
Procederò indicando i tre livelli di analisi che ho condotto in maniera del tutto naturale e spontanea:
1) livello dell’impatto visivo;
2) studio dell’aspetto concettuale dell’opera;
3) realizzazione dell’opera dal punto di vista tecnico.
Anticipo che dall’analisi di questi lavori sono emerse originalità, complessità di esecuzione, semplicità e immediatezza nella loro fruizione. Di seguito descrivo nel dettaglio ciò che ho riscontrato tenendo distinte le tre prospettive di osservazione:
- analizzare l’impatto visivo di un’opera d’arte significa, come recita una nota pubblicità di cosmetici, “guardare al risultato” e nel fare ciò si è consapevoli che il risultato finale è già di per sé sufficiente a testimoniare la sua bontà, senza che sia necessario scavare troppo affondo. Quindi sarebbe sufficiente questo primo punto a decretare la grandezza delle opere in questione, soprattutto perché questi lavori contengono il germe della novità, che in un’epoca di continui déjà vu, è forse la perla più rara. Le opere di Daniele D’Antonio sono di forte impatto alla vista perché non risultano appesantite da inutili orpelli o pensieri, vanno dritte al dunque nel mostrare il volto del nuovo artista che si confronta, con gran dignità e senza timori, con i grandi maestri del passato. Stante alla complessità di partenza, il lavoro finale proposto da Daniele è quasi essenziale e lineare. L’Artista è riuscito a sublimare diversi punti di vista, a fondere diverse prospettive di osservazione, donandoci un quadro unico filtrato di qualsiasi elemento superfluo. La prima volta che ho visto queste immagini ho notato subito una freschezza rispetto a tutte le altre opere che quotidianamente vedo proposte da altri artisti. Nonostante si tratti di lavori estremamente complessi, come spiegherò nei prossimi punti, Daniele D’Antonio è riuscito attraverso una sintesi che investe più ambiti a proporre un quadro della situazione pulito e diretto. Per certi versi quella di Daniele D’Antonio sembra quasi un’attività di restauro che svecchia le tele liberandole dalla patina del tempo, portandole ai giorni d’oggi, a come le avrebbero realizzate probabilmente gli autori dopo Pirandello, Freud, dopo la diffusa scoperta della frammentazione dell’io e dell’imperversare della tecnologia.
- Al netto della considerazione finale del precedente punto, l’idea che Daniele D’Antonio ha tradotto in immagini non può che derivare da un’osservazione morbosa delle opere di partenza e da una profonda conoscenza delle stesse. Ci troviamo di fronte ad un autore contemporaneo che penetra all’interno di opere classiche con l’intento di reinterpretarle. Dopo averle osservate a lungo dall’esterno, ci entra dentro, le scompone attraverso l’utilizzo di diverse prospettive e punti di vista, non solo ottici. Questo approccio non può che affascinare chi ama osservare opere d’arte in quanto apre una nuova via anche al modo di vedere. Da queste opere emergono l’importanza e l’intelligenza dello sguardo di Daniele D’Antonio nel guardare l’arte dall’interno, oltre che un inedito modo di reinterpretare il passato. Daniele D’Antonio in queste opere si confronta con grandi maestri senza risparmiarsi. Si dà totalmente, impegnato in una ricerca ampia e profonda che confluisce nella costruzione di opere che parlano da sole e che non hanno bisogno di orpelli. Dal punto di vista concettuale Daniele entra nell’opera come nessuno prima, la vive, la analizza, si sostituisce ad ognuno dei personaggi ritratti, guarda con i loro occhi e vede ciò che probabilmente nessuno ha mai visto prima in queste opere. Realizzandole consente anche a noi di guardare oltre. Ci offre l’ampiezza del suo sguardo, la sintesi del suo percorso da cui deriva anche il titolo della serie. L’idea di interpretare il quadro anche attraverso la reinterpretazione dei singoli personaggi raffigurati, vivendoli su se stesso, a mio giudizio offre un’accelerazione rispetto a ciò che si è visto fino ad ora in termini di reinterpretazione di opere altrui. L’idea di sostituirsi a tutti i personaggi presenti nelle opere rivisitate (donne comprese) è originale ed è un’idea tutta sua che dal punto di vista visivo colpisce con immediatezza. In questo caso l’originalità dell’immagine è il naturale frutto di un modo di vedere e pensare all’arte altrettanto originale.
- Io sono l’ultima persona ad apprezzare l’aspetto tecnico di realizzazione delle opere, eppure in questo caso devo ammettere (come se non fossero bastati i due punti precedenti) che questa prospettiva di analisi riguardo alle opere di Daniele D’Antonio è forse la più interessante di tutte. Daniele D’Antonio si sforza, ottenendo un risultato eccezionale, di dipingere sul proprio volto attraverso l’arte della mimica, le espressioni dei personaggi contenuti nei quadri. Posso solo immaginare quanta fatica abbiano richiesto per la loro realizzazione queste opere. In estrema sintesi un remake, una reinterpretazione di un’opera altro non è che un ritratto dell’opera stessa. Per far capire in maniera semplice la differenza tra questa reinterpretazione ed una reinterpretazione pittorica faccio la seguente considerazione: una reinterpretazione in chiave pittorica di un quadro con gli strumenti dei quali si dispone oggi sarebbe un esercizio destinato, nella maggior parte dei casi, a rivelarsi vano, anche perché tecnicamente parlando sarebbe arduo il confronto con gli autori originali, e soprattutto si tratterebbe di una reinterpretazione attraverso una singola prospettiva visiva: quella esterna al quadro (mentre D’Antonio in questa ottica si è spinto molto oltre).
Spesso l’arte contemporanea viene incolpata di scarso collegamento con il passato o di troppe superficialità e semplicità rispetto alle opere classiche. Ebbene Daniele D’Antonio con queste reinterpretazioni riscatta il ruolo dell’artista contemporaneo l’esecuzione delle cui opere è spesso caratterizzata da semplicità. Infatti, tenuto conto delle abilità fotografiche richieste, dell’impegno nella mimica e nella recitazione, dello studio delle opere di riferimento e la conoscenza delle tecniche informatiche per l’assemblaggio finale del lavoro, ritengo che le capacità necessarie per la realizzazione della serie Paths, non sono per nulla inferiori a quelle richieste ai pittori del passato.
Alla luce di quanto fin qui esposto, se io fossi un collezionista d’arte contemporanea non mi priverei di queste opere.
Ora lascio la parola all’Artista che ci ha gentilmente concesso un’intervista.
D. Paths, perché hai scelto questo titolo?
R. Paths – Percorsi, è una considerazione fatta con Caterina Bilabini, un’amica artista milanese con la quale nasce questo progetto. Nel raccontarci, ci siamo accorti che nel bagaglio accumulato nel percorso artistico di ognuno di noi esistono influenze, suggestioni, veri e propri amori verso opere o artisti, che in qualche misura ci hanno segnato nel tempo, nel corso della nostra evoluzione artistica.
Caterina ed io abbiamo quindi deciso di aprire le nostre rispettive valigie di viaggio e rovistarci dentro, tirando fuori questi segnavia nei quali ci eravamo imbattuti nel corso del tempo.
Un progetto curioso, per certi aspetti, perché sviluppato a quattro mani, ma che racconta di due evoluzioni artistiche indipendenti tra loro, ma che riconoscono come comun denominatore l’esistenza di un viaggio, un percorso indipendentemente dalla rotta singolarmente seguita, appunto, da cui il titolo del progetto.
D. Al di là dei quadri che rivisiti, quale è la fonte d’ispirazione o comunque, quali sono i riferimenti artistici e culturali ai quali possiamo collegare la serie?
R. Mi piace spesso ripetere che i migliori fotografi contemporanei sono del 1600, anche se usavano un pennello. Mi piace l’arte moderna e contemporanea, ma sicuramente la base della fotografia, intesa come estetica compositiva, narrazione e uso della luce e della sua magia nasce in quell’epoca. Il meglio della fotografia che possiamo vedere oggi è già stato proposto nel ‘600 e ci è entrato nel DNA e da questo patrimonio genetico ne siamo fortemente condizionati.
Di conseguenza questo lavoro, che di fatto è una raccolta di tributi a Maestri di fronte ai quali mi inchino, prende come riferimento Caravaggio, Artemisia Gentileschi, Rembrandt, con una puntata più recente con Heinrich Fussli, più che altro per la carica onirica che emotivamente mi coinvolge di fronte al suo Incubo.
Non sono le sole opere e i soli autori che amo: ne ho fatto una selezione spietata, incompleta e fondamentalmente ingiusta, ma nel corso di realizzazione di questo lavoro l’impatto emotivo che ho subito mi ha confermato che realmente queste opere significano qualcosa per me, molto più che il piacere della visione o un generico riconoscimento della grandezza dell’artista che le ha dipinte.
D. Dal punto di vista tecnico immagino che la realizzazione di queste opere sia stata molto impegnativa. Ci racconti il modo in cui hai lavorato, il processo che hai seguito per la loro realizzazione?
R. Innanzitutto mi sono sostituito a tutti i personaggi presenti in tutte le scene, fatta eccezione per l’Incubo di Fussli, dove mi sono sostituito al mostro o diavoletto originario, per enfatizzare lo spostamento del soggetto dell’immagine dalla originaria donna dormiente appunto alla presenza antropomorfa aliena sulla scena.
Da un punto di vista tecnico c’è stata ovviamente l’analisi della scena. Ipotizzando il set originario, l’analisi che ho dovuto compiere è stata basata sulla posizione e caratteristiche delle luci, le posizioni ed espressioni dei personaggi presenti, i loro mutui rapporti e gli equilibri compositivi scelti dall’artista.
Queste impostazioni le ho ricreate sui miei set fotografici.
Sostituendomi a tutti i personaggi, ovviamente per ognuno di essi c’è stata una serie di scatti impostati, e successivamente un gran lavoro di composizione della scena per riottenere il risultato originario, con un processo di postproduzione decisamente articolato.
D. Le rivisitazioni della “Giuditta che decapita Oloferne ” di Artemisia Gentileschi e la “Lezione di anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt Harmenszoon van Rijn mi hanno colpito particolarmente, per la loro complessità ed allo stesso tempo per la loro immediatezza. Ci dici qualcosa di più su queste opere? Cosa vorresti venisse notato dallo spettatore?
R. Sono due opere che si sono rivelate particolari, in effetti, in corso di realizzazione.
Per Giuditta e Oloferne sono partito dalla considerazione che c’è un omicidio in atto. E’ il quadro più dinamico della serie. Ci sono tre persone: la killer, la vittima e la complice. E’ il quadro dove mi sono dovuto impegnare di più sulla mimica facciale, per me che non ho esperienze attoriali, che ho cercato di risolvere con un lavoro introspettivo. Mi son detto: nella vita di ognuno di noi ci sono stati momenti in cui siamo stati vittime, carnefici o complici. Sono stato costretto ad andare ad episodi della mia vita in cui ho ricoperto questi tre differenti ruoli, a riviverli e ad esternarne l’emozione nel momento in cui la macchina fotografica faceva clic. E’ stato un set abbastanza impattante.
Tecnicamente è l’unico quadro dove le tre figure sono su piani non semplicemente sovrapposti, ma intersecati tra loro, per cui la ricomposizione dei personaggi è passata anche attraverso un lavoro di taglia e cuci di gambe e braccia, per esempio, per farle passare davanti o dietro l’uno o all’altra. Un delirio di sovrapposizioni di ombre e luci di parti di personaggi sugli altri, a fronte di scatti sui singoli protagonisti della scena.
La lezione di anatomia è stata l’esatto opposto. Sono riandato, con simpatia, ai miei studi universitari e mi sono accorto che i personaggi raccontati da Rembrandt erano esattamente come me insieme ai miei compagni di corso all’Università: quello scettico, quello pignolo, quello concentrato sugli appunti, quello che venera il professore e quello che lo considera un inetto. E, piccolo cameo, quello che controlla con distacco la scena, osservando in piccolo l’immagine della Lezione originaria.
D. Si è da poco conclusa la tua mostra PATHS-PERCORSI presso la Sede espositiva del Museo di Arte Urbana di Torino, hai ottenuto il riscontro che ti aspettavi? Quale è stata la reazione del pubblico?
R. E’ stata una mostra che è piaciuta molto, sia per la mia parte che per quella proposta da Caterina. E’ stata proposta nella galleria del MAU, che ha un pubblico abituato a proposte valide e che è abbastanza capace di valutarle ed apprezzarle, e questo mi ha fatto molto piacere. Mi piacerebbe continuare a portarla in giro, anche perché adoro raccontarla.
D. Per chi volesse iniziare a collezionare le tue opere quali tipi di formati e stampe proponi?
R. Con questa collezione ho iniziato a proporre le opere, oltre che in stampa singola fine art numerata e autenticata, anche in una versione più economica, basata sulla possibilità di acquisire l’intera collezione, non una singola opera, in un formato ridotto, presentata in cofanetto, con i singoli fogli 30×30 numerati e autenticati, in tiratura limitata. Riuscendo a contenere il costo di accesso all’intera collezione, grazie al fatto che ormai i miei progetti viaggiano tra le cinque e le dieci immagini al massimo, posso proporre un racconto completo, in un prodotto esclusivo, altrimenti al di fuori della portata di molti (spero) miei estimatori. Gli interessanti possono inviare una mail al seguente indirizzo: dantoniodaniele.it@gmail.com