Dino Messina del ‘Corriere’ ha pubblicato questa opinione del turbighese Angelo Paratico, premettendo di non condividerla.
L’uscita dall’euro in Italia vien vista come una cosa da leghisti o da neofascisti, non degna d’esser presa sul serio. Eppure il buon senso ci dovrebbe guidare verso uno studio più attento sui pro e sui contro di tale scelta, senza farci intimorire da accademici e uomini politici che pretendono di conoscere l’economia. La matematica non è né di destra né di sinistra, anche se viviamo in un’epoca nella quale gli economisti vengono scambiati per scienziati e statisti, mentre in realtà son solo delle persone che hanno razionalizzato la propria sete di lusso e di denaro. Questo fatto, a ben guardare, inficia la loro indipendenza di giudizio e a tal proposito citiamo l’economista JK Galbraith, il quale disse che: “In economia, speranza e fede coesistono con grandi pretese di scientificità e un forte desiderio di essere rispettati.” Infatti, una scienza incapace di predire eventi generali non è una scienza, ma una fede.
V’è chi dice che ai tempi di Roma un cittadino poteva viaggiare da un angolo all’altro dell’impero usando i propri denari d’argento, dunque una specie di euro sarebbe già esistito ma, in realtà, questo non è vero. Tale viandante aveva comunque bisogno dei banchi dei cambiavalute, proprio coloro che Gesù buttò fuori dal Tempio di Gerusalemme.
L’impero romano durò circa 500 anni e se analizziamo in dettaglio la loro politica monetaria scopriamo che esistevano diverse monete nelle varie province e che, pur avendo potuto unificarle tutte con un semplice decreto imperiale, non lo fecero mai e anzi incoraggiarono queste diversità.
Gaio (130 – 180) un celebre giurista romano, notò che: “La moneta, sebbene debba possedere lo stesso potere d’acquisto ovunque, è più facile averla in certe località con interessi inferiori, mentre è difficile da trovare in altri dove gli interessi sono alti.”
Un esempio fra i tanti, nel regno di Pergamo, che i romani conquistarono nel II secolo a.C. usavano monete d’argento note come cistofori e che continuarono a essere battute con poche differenze per secoli, infatti le troviamo ancora ai tempi di Adriano e Settimio Severo.
I romani fecero il contrario di quanto stanno facendo gli euroburocrati: lasciarono libere le province di far come gli pareva, purché non si ribellassero e osservassero il corpus delle leggi romane. Inoltre, ai tempi di Roma, la creazione di moneta era legata alla disponibilità di metalli preziosi, oro e argento e vili, come il rame e lo stagno, dunque per loro la ricchezza era una conseguenza del aggiungere valore e non del aggiungere nuova moneta.
L’idea dominante nel mondo, prima della grande depressione del 1929, fu che i singoli stati dovessero mantenere un cambio fisso e il successo dello standard aureo in vigore dal 1870 al 1913 aveva radicalizzato questa fallace opinione, rendendola diffusissima.
Con la crisi del 1913, che raggiunse poi l’apice nel 1929, s’ebbe la dimostrazione che questa teoria era sbagliata. Eppure, nel luglio 1944 a Bretton Wood, la mentalità dei legislatori era ancora a favore di un ritorno a un mitico Eden dei cambi fissi, e fu proprio lì che l’IMF fu concepito, per permettere un certo grado di flessibilità nei cambi. Com’era prevedibile, l’accordo non resse ai colpi di successive crisi e nel 1953 Milton Friedman propose di passare a un nuovo sistema di cambi flessibili.
Nel marzo1969, Harry Johnson – della London School of Economics e della University of Chicago – ribadì l’argomento di Friedman, ovvero che solo un alto grado di flessibilità nei cambi potrà permettere ai vari stati nazionali una tranquillità fiscale e che le svalutazioni e l’inflazione restavano il male minore, rispetto agli inutili tentativi di mantenere la parità.
Ebbene, la creazione del euro va esattamente in direzione opposta a questo, e fu la Francia la nazione europea che più di ogni altra spinse per attuarla, convincendo una riluttante Germania a seguirla. Georges Pompidou ne fece il perno della propria politica e nonostante tutte le crisi che avrebbero dovuto scoraggiare i presidenti francesi nel continuare a battere quella strada, essi perseverarono, credendolo uno strumento di contenimento della Germania. Il trattato di Maastricht del 1992, che segnò la nascita dell’ euro, non tenne conto del principio di sussidiarietà, ossia il principio per il quale un’autorità di livello gerarchico superiore si sostituisce ad una di livello inferiore quando quest’ultima vien percepita come non in grado di compiere gli atti di sua competenza. Il resto è storia dei nostri giorni e, come disse Roland Barbou, parafrasando Orwell, in quegli anni si diede inizio al “groupthink” europeo, diviso in quattro parti: serve un leader che porta avanti la bandiera; vanno silenziate le critiche esterne (Nicholas Kaldor, Fiedman, Harry Johnson e molti altri studiosi anglosassoni); vanno silenziate le critiche interne (molti si allinearono dopo aver espresso dissenso, come il presidente della Bundesbank, Karl Otto Pohl); e, come conseguenza, si procede verso una operazione che comporta un grande – e irragionevole – rischio.
Ecco cosa disse Francois Mitterrand a Margareth Thatcher nel 1989: “Senza una valuta comune siamo tutti, noi e voi, alla mercé della Germania. Se alzano i tassi di interesse siamo costretti a seguirli e voi, che pure non siete nel sistema monetario, dovete fare lo stesso. L’unico modo per aver voce in capitolo è avere una banca centrale europea, così possiamo decidere insieme.”
Margareth Thatcher capì meglio di molti economisti che sedevano nel suo gabinetto che l’euro era un errore. Le bastò usare il buonsenso dei propri genitori che vendevano verdura e spinse la Gran Bretagna a restarne fuori: grazie a ciò non fecero la fine di Spagna e Irlanda nel 2009. Un’altra assurdità proposta dagli euroburocrati e poi accettata dai nostri legislatori è stato il pareggio di bilancio, addirittura posto nella Carta Costituzionale. Ogni artigiano avrebbe potuto spiegare ai legislatori che per lavorare e investire è obbligatorio far dei debiti, ma quella decisione fu un effetto del panico provocato dalla crescita dello “spread” causato da manovre speculative ancora non ben chiarite.
Chi sostiene che l’uscita dall’euro sia un salto nel buio potrebbe aver ragione, ma si dimentica di dire che anche chi vuol restare nell’euro brancola nelle tenebre, non sapendo che succederà ma dato che chi vi spiega le cose in televisione ci sta facendo soldi, a scapito della cessione della sovranità del proprio Paese, conquistata con il sangue dai nostri padri e dai nostri nonni, e preferisce mantenere le cose come stanno, sperando che poi le cose s’aggiusteranno strada facendo.
Uno degli architetti dell’euro, Otmar Issing, scrisse nel suo “The 50 Days That Changed Europe” che a Strasburgo, il 9 dicembre 1989, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, la Germania disse sì all’unione monetaria per ottenere il permesso dal presidente Mitterrand per andare avanti con la propria riunificazione, anche se sapevano che senza una unificazione politica non si potrà avere divisa comune. Oggi anche Issing è pessimista sul futuro dell’euro e ammette: “Un giorno il castello di carte verrà giù.”
Angelo Paratico