E’ IL TURBIGHESE ANGELO PARATICO CHE SCRIVE LA STORIA DI VITO MODUGNO
Uno dei processi più celebri nella storia italiana fu quello intentato al tenente Vito Modugno, e se fosse esistito Porta a Porta condotto da Bruno Vespa, non dubitiamo che ci avrebbe costruito sopra molte interessanti trasmissioni, con dibattiti, filmati e ricostruzioni.
Vito Modugno nacque a Bitonto nel 1870 in una famiglia della piccola borghesia e fu mandato a studiare all’accademia militare di Torino, da dove uscì con i gradi di sottotenente del Genio.
Era un uomo di piccola statura, con baffoni a manubrio e per quanto ne sappiamo assai ambizioso. A Torino sedusse una maestrina milanese, tale Elettra Barbieri, che rimase incinta e diede alla luce un bambino. Non volendola sposare, s’offrì volontario per andare a combattere in Africa, ma lei lo seguì con la loro creatura, che però non resse a un’infezione e morì. Partecipò alla battaglia di Adua e poi i due rientrarono in Italia, dove la piantò, cercando un miglior partito per sistemarsi.
Mentre si trovava a Bari vide un’attraente ragazza passare in calesse, si chiamava Cenzina di Cagno ed era di dieci anni più giovane di lui, con uno zio banchiere. Dopo aver preso le dovute informazioni si presentò a casa di lei per chiedere la sua mano.
I familiari di lei acconsentirono all’unione, che fu celebrata alla fine del 1899 e poi si trasferirono a Pavia, dove Modugno prestava servizio. Fu allora che si manifestarono i primi sintomi della terribile malattia che affliggeva la sposa: sifilide, una malattia incurabile in quel tempo.
Nel frattempo era scoppiata la crisi dei Boxer in Cina. La legazione italiana a Pechino fu incendiata e il nostro rappresentante, Giuseppe Salvago Raggi, sua moglie Camilla e il figlio Paris, assieme a nostri militari e commercianti, trovarono rifugio nella legazione britannica e per 55 giorni tennero testa agli assalti dei ribelli, ai quali s’era unito l’esercito regolare cinese, con il beneplacito dell’imperatrice madre, Cixi.
In fretta e furia otto Paesi misero insieme dei volontari e dei vascelli da guerra da mandare in Cina: l’Italia fece partire varie navi, sia da Venezia che da Napoli, caricandole di bersaglieri, guidati dall’ammiraglio Camillo Candiani d’Olivola.
Vito s’offrì volontario – la paga era buona – e partì da Napoli, dove furono ispezionati e salutati da re Umberto I, pochi giorni prima del suo fatale appuntamento con Gaetano Bresci, a Monza. Sei mesi dopo la sua partenza per la Cina sua moglie partorì una bambina, Maria.
Da Pechino Vito Modugno tornò alla fine del 1901, dopo aver partecipato a degli scontri con i cinesi, e poi essersi occupato della ricostruzione della legazione italiana. Venne decorato sia dalle autorità italiane che da quelle tedesche (con l’ordine dell’aquila nera).
Tornò in Italia con svariate casse contenenti opere d’arte cinesi e cominciò a rivenderle: a causa di ciò partirono delle lettere anonime con le quali lo si accusava di aver razziato e rubato. Le autorità militari lanciarono un’indagine, ma in realtà il suo non fu un comportamento isolato, quasi tutti i soldati delle otto nazioni fecero man bassa di ciò che trovarono a Pechino, anche se russi e britannici fecero peggio degli altri e, addirittura, questi ultimi accumularono molto di ciò che fu rubato e poi organizzarono un’asta che andò avanti per tre mesi!
La giustizia militare chiese le dimissioni di Vito Modugno ed egli le presentò il 22 ottobre 1902.
La mattina del 29 dicembre 1902, nella sua villetta di Pavia, s’udì un colpo di pistola. Il giardiniere e la domestica corsero in casa e trovarono Cenzina di Cagno nel letto, con una pistola Mauser mod. 1891, appartenente al marito, nella mano destra e la testa imbratta di sangue. Dopo il giardiniere entrò, trafelato, lo stesso Vito. Cenzina respirava ancora ma morì il giorno successivo. Sotto al cuscino rinvennero una sua lettera d’addio al marito nella quale gli chiedeva perdono per ciò che aveva fatto, “essendo consumata da un insopportabile rimorso.”
La polizia dubitava che una donna così debole e malata potesse usare una pistola tanto pesante, poi dubitarono della lettera d’addio. Notarono, inoltre, che la finestra della camera era a livello del giardino e, dunque, Vito avrebbe potuto spararle, uscire dalla finestra e poi rientrare dopo la domestica e il giardiniere.
Vito non doveva essere un uomo con molti amici perché, di nuovo, partirono delle lettere anonime che l’accusavano della morte della donna. Il magistrato Luigi Fata, il 13 gennaio 1903, dispose l’arresto di Vito Modugno, con l’accusa di aver assassinato la moglie.
Secondo l’impianto accusatorio costruito dagli inquirenti, la pallottola era entrata dalla tempia sinistra della donna, dove stava un piccolo foro ed era uscita dalla destra, causando un ampio squarcio, quindi la pistola doveva stare nella sua mano sinistra, non nella destra. L’autopsia dimostrò che si sbagliavano, il piccolo foro sulla sinistra era quello di uscita, non d’entrata della pallottola. Non solo, ma durante il processo emerse che Cenzina, prima di sposarsi dormiva con un revolver sotto al cuscino, per difendersi da un suo cugino e che sapeva maneggiare benissimo l’arma.
Il processo si tenne a Perugia a partire dal 18 marzo 1905. Tutti i principali giornali italiani inviarono dei corrispondenti e l’aula era strapiena di spettatori. Chiamarono a testimoniare 35 esperti di fama e 250 testimoni, fra i quali Luigi Barzini sr. corrispondente in Cina per il Corriere della Sera, dove aveva conosciuto Modugno.
Il pubblico ministero era Carlo Stuart, un famoso magistrato. Tutti gli italiani erano interessati a quel processo, come testimoniano le paginate apparse sui quotidiani e i disegni sulle riviste illustrate dell’epoca, che ce lo mostrano dietro alle sbarre. Tutti ne parlavano: sui posti di lavoro, in piazza e nelle osterie, perché quel processo fu politicizzato, tant’è che ne dibatterono anche in Parlamento gli on. Bissolati e Dal Verme.
Chi vedeva Modugno innocente era, in genere, di destra e un nazionalista, questi non pensavano che un ufficiale del regio esercito, un eroe pluridecorato, potesse uccidere la moglie. I socialisti erano invece convinti della sua colpevolezza, vedendo in lui un violento guerrafondaio.
Fu tanto l’interesse del pubblico che furono pubblicati saggi di taglio lombrosiano per dimostrare che Vito aveva la faccia d’assassino e che, essendo un fornicatore e un ladro, aveva passato lui la sifilide alla moglie, anche se solo durante il dibattimento emerse che altri membri della famiglia Di Cagno ne erano affetti.
Alcuni dei soldati che avevano servito in Cina sotto a Modugno furono chiamati a testimoniare, in particolare Viscillo, Mirelli e Bontempi. Mirelli alzò la camicia per mostrare sulla schiena le cicatrici lasciate dalle frustate fatte somministrate da Modugno, in seguito a piccole infrazioni e disse alla giuria che la violenza fu tale che un soldato tedesco che vi assisteva proruppe in lacrime. Modugno si limitò ad allargare la braccia e a dire: “Che avreste fatto al posto mio?”.
Raccontarono anche che durante un assalto a una città fortificata cinese, Modugno tagliò a colpi di spada dei soldati cinesi che s’erano arresi e poi, teatralmente, leccò il sangue sulla lama della propria spada.
A causa di questi episodi, Vito Modugno fu deferito a una corte marziale, dove rischiava la fucilazione.
L’accusa concentrò le proprie attenzioni sulla lettera di Cenzina: se avessero potuto dimostrare che era falsa, allora Vito era in trappola. Furono chiamati i maggiori esperti in grafologia italiani, i professori Vismara, Castelli e Thevenet che offrirono i loro dotti pareri. La lettera si trovava dentro a una busta, con scritto sopra “Cenzina Modugno di Cagno” ed era datata 28 dicembre 1902. Discussero per ore di tratti femminili e maschili, di curve e riccioli e alla fine gli esperti nominati dall’accusa dissero che era falsa, quelli nominati dalla difesa, dissero che era genuina. Unico punto d’accordo fu che, forse, l’intestazione sulla busta era stata posta successivamente rispetto a quanto stava scritto sul foglio posto al suo interno.
Il processo si concluse dopo sei mesi: Vito Modugno fu dichiarato innocente e sua moglie s’era suicidata. Fu liberato e affrontò il processo al tribunale militare, ma anche lì fu assolto. Uno degli avvocati del suo collegio di difesa lo denunciò per non aver saldato il conto salatissimo che gli aveva presentato, allora fu costretto a vendere la casa per pagarlo, poi rinunciò a tornare in aula per riavere la figlioletta, Maria, dato che ormai lei non voleva tornare con il padre, che credeva un orco.
Non si sa che fine fece Vito Modugno, le sue tracce spariscono dopo questi fatti ma girarono voci che era tornato in Cina in cerca di fortuna, e il fatto che effettivamente ci abbia pensato è dimostrato da una lettera che fu letta durante il processo. Era stata scritta da Luigi Ghisi, console onorario d’Italia a Shanghai e ricco commerciante, il quale gli sconsigliava vivamente di tornare in Cina in cerca di lavoro, dove già gli italiani si facevano la guerra per vendere “una cassa di maccheroni”.
Angelo Paratico