Da una conferenza tenuta a Zurigo all’Istituto Svizzero per i rapporti culturali ed economici con l’Italia nel giugno 2008 da ACHILLE COLOMBO CLERICI
La questione meridionale italiana, da quasi un secolo al centro del dibattito storiografico
e politico nel nostro Paese, può sintetizzarsi (se mi è permesso, per economia del discorso, ricorrere a tesi ed enunciazioni), nel dilemma se debba pensarsi ad un Sud sottosviluppato “come condizione” dello sviluppo nel Nord o piuttosto ad un Sud sottosviluppato nonostante il progresso del Nord.
Parallelamente e correlativamente una questione settentrionale potrebbe oggi, per grandi linee, affacciarsi in questi termini problematici: se ed in quale maniera il Nord possa, nell’interesse del Paese, concorrere nella sfida della competizione internazionale nonostante il sottosviluppo del Sud, o se possa da questo in qualche modo risultare condizionato.
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Nella recente campagna elettorale per le votazioni politiche del 2008 entrambi gli schieramenti hanno convenuto sulla riconoscibilità di un certo disagio, di un malessere del Nord Italia a proposito di una sua capacità autopropulsiva sul piano di un adeguato sviluppo: soprattutto alla luce della sfida internazionale da affrontare.
Alcuni sostenendo un’idea più avanzata sul piano del “federalismo”, soprattutto in campo fiscale; altri più sfumatamente parlando di “regionalismo”, in aderenza sostanzialmente all’idea di una maggiore autonomia dell’ente locale.
Ma poi inevitabilmente nelle risposte degli uni e degli altri sono emerse tutte le tematiche del dibattito generale: dai principi di interdipendenza, di sussidiarietà, di solidarietà, al policentrismo ed al cosmopolitismo.
Il tutto inquadrato in un sistema che sia in grado di conciliare le esigenze di autogoverno–partecipazione locale, con la salvaguardia del principio di unità-solidarietà nazionale.
Valutazione – effetti
C’è alla base della questione settentrionale il problema di un’Italia a deux vitesses, come dicono i francesi.
Un Settentrione, progredito e dinamico ed un Meridione caratterizzato da una originaria arretratezza economico–strutturale e da un ridotto dinamismo economico come è testimoniato, tra l’altro (attesi i recentissimi dati ISTAT), oltre che dal differente livello di capacità fiscale pro capite, dal più elevato numero di abitazioni occupate direttamente dai proprietari (indice di una società statica). Caratteri questi che la politica del welfare state (in versione italiana) praticata in tutti questi anni nel nostro paese non è stata capace di rettificare se non in parte.
L’assistenzialismo centralistico verso le regioni del Sud ha dato luogo infatti a ingenti trasferimenti finanziari alle famiglie senza la contestuale creazione di nuovi posti di lavoro.
Si è in tal modo sviluppato nel mezzogiorno un modello di società dei consumi senza una corrispondente produzione.[1]
Lo Stato Italiano ha così sottratto ingenti risorse finanziarie agli investimenti in infrastrutture di servizio, tanto al Nord, quanto al Sud; dove peraltro gli investimenti realizzati non hanno potuto innestarsi in un efficiente e funzionale sistema socio-economico di base in grado di consentirne la piena esplicazione della potenzialità.
Una Italia a due velocità dunque, dove il sistema dello Stato centralizzato ha teso sempre alla unificazione del trattamento delle situazioni locali differenti. Sul piano istituzionale, culturale, fiscale, del regime del lavoro. La logica è stata quella di rendere più ricche le regioni più povere; mentre sarebbe stato più corretto equiparare i cittadini delle diverse regioni, sul piano della fruizione dei servizi.
E certamente, come ricordava Carlo Cattaneo, non c’è modo migliore per evidenziare le diversità, che trattare in modo eguale due situazioni differenti. E’ come imporre un abito della stessa taglia a due uomini l’uno grande e l’altro piccolo; non va bene né all’uno, né all’altro.[2]
La storia è nota. I padri fondatori dello Stato italiano, al tempo della unificazione, (lo ricorda Sabino Cassese nel suo volumetto “Lo Stato introvabile”) erano inclini al decentramento. Ma lo sviluppo del seme del decentramento fu arrestato dal prorompere della questione meridionale.
Venendo ai nostri giorni, nel nostro Paese attorno al ’92 la situazione di crisi causata da una ventennale politica del rinvio delle decisioni sui nodi cruciali, avrebbe potuto esplodere da un momento all’altro in catastrofe economico-finanziaria se non fosse stato per la straordinaria vitalità del sistema economico-istituzionale (la miriade di imprese medio piccole), e per una sorta di “religiosità civile” fatta di lavoro, di risparmio e di senso di responsabilità (mostrato anche dai sindacati dei lavoratori) che hanno impedito al sistema di degenerare.
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Quanto agli effetti sul piano internazionale, il Centralismo in Italia oltre che deprimere Nord e Sud ha portato anche alla perdita di un ruolo Europeo.
Perché esso ha condotto non all’incremento, bensì alla riduzione delle eccellenze nazionali, quanto mai necessarie nella competizione internazionale.
Non diversamente va letto quello che può ritenersi l’organigramma di organi, istituzioni ed agenzie dell’Unione Europea, dove, pur seguendosi il modello della “capitale reticolare” (delocalizzazioni e decentramenti di funzioni e di rappresentatività), all’Italia è riservata la posizione di fanalino di coda.[3]
Lo sviluppo del pensiero più recente
Certo è che da dieci anni a questa parte il problema dell’Italia a due velocità, che si chiami federalismo, piuttosto che regionalismo, è diventato la questione settentrionale del nostro Paese.
Già nel 1990/1992 la fondazione Giovanni Agnelli di Torino diretta dal prof. Marcello Pacini nel volume “La Padania, una regione italiana in Europa” apre su basi scientifiche un discorso ampiamente “avvertito” da quell’opinione pubblica che, uscendo dall’interna riflessione di illuminate minoranze, scopriva l’indifferibile urgenza del federalismo.
Tanto che, nel 1994 lo stesso prof. Pacini, nel documento della Fondazione sul tema “Scelta federale ed unità nazionale” avanzava l’ipotesi di suddividere il territorio nazionale (riaggregazioni regionali) in 12 macro-regioni (contro le attuali 20) secondo criteri di copertura finanziaria o fiscali/territoriali.[4]
Nel frattempo alcuni critici cavalcavano l’attacco allo Stato centralista ed interventista; accusandolo di aver profuso invano le proprie risorse dissanguando le finanze pubbliche nel buco nero, nel pozzo senza fondo del “Sud assistito”.
L’antistatalismo liberista e federalista si trasforma in antimeridionalismo: la questione del Nord è la questione del suo sfruttamento da parte del Sud “parassita”.
La stessa Chiesa cattolica, nel 1996, con il documento della “Commissione giustizia e Pace” della Diocesi di Milano ragiona sull’introduzione di un “regionalismo forte”, di un “federalismo solidale” che poggino su una nuova cultura delle istituzioni (il passaggio dal cittadino utente-cliente al cittadino che conosce, decide, controlla: dal costume della passività, all’etica della responsabilità) e che mirino ad edificare la sovranità dal basso secondo i più genuini principi della democrazia partecipata. Una sorta di società amicale nella quale i poteri della cittadinanza siano da tutti esercitati nell’equilibrio dei diritti e dei doveri e si creino le condizioni effettive per un incontro efficace tra risorse e bisogni
Le categorie economiche e le parti sociali, per parte loro, avvertivano l’urgenza di una riforma istituzionale in campo tributario, rilevando l’esistenza di vaste aree di sperequazione sul piano non solo geografico, ma anche dei diversi settori economici, e dei differenti livelli di responsabilità sociale e personale.
Ricordo un nostro convegno di ASSOEDILIZIA nell’ottobre del 1995, nel quale l’allora Sindaco di Milano, Marco Formentini ed il Vice Presidente del Senato Marcello Staglieno posero fortemente la questione di una riforma fiscale in senso federalistico, denunciando il sistema dei cosiddetti trasferimenti statali gravemente punitivo della proprietà immobiliare, colpita dall’I.C.I. (Imposta Comunale sugli Immobili) in ragione inversamente proporzionale ai tagli dei trasferimenti stessi dallo Stato ai Comuni medesimi. L’11 ottobre dell’anno scorso, parimenti Assoedilizia tenne, con l’Università degli Studi di Milano, un Convegno sul tema del federalismo fiscale nel quale sostanzialmente si prese atto di alcune preoccupanti distorsioni, in sede di attuazione del principio, soprattutto a danno dei contribuenti ICI.
I fondamenti culturali – le diversità italiane
Certamente, la questione non va posta in termini di rivendicazione culturale o peggio campanilistica.
Anche se, sul piano culturale sociale ed etico, esistono ampie sfere di differenziazione tra Nord e Sud.[5]
D’altronde si può dire, come qualcuno sostiene, che l’Italia si presenta non a due, bensì a tre, ed a quattro velocità.
Esiste una differenziazione culturale: cioè di carattere, di costume, di mentalità. C’è una linea di demarcazione fra gli italiani che gravitano su Roma e quelli che gravitano su Milano.
I primi, provenendo per lo più dalle regioni centro-meridionali non diventano romani. La romanità è un carattere poco contagioso e comunicabile: è avvezza alla chiusura secolare propria di chi riceve, per usare l’aforisma di Aristofane, “nottole ad Atene” e dipende da una burocrazia legata ad un potere imperituro: quello della Chiesa.
Chi approda a Roma tende a statalizzarsi.
Chi gravita su Milano tende a milanesizzarsi (Montanelli): viene conquistato cioè da quella capacità della città ambrosiana di far sentire a casa propria chiunque vi operi, perché lo fa sentire attivamente coinvolto nel processo di costruzione del futuro della città e del paese. Si tratta, nel sistema Italia, di due culture diverse non antagoniste, ma complementari: per cui non può pensarsi di ridurre la complementarietà all’omogeneità.
La civiltà comunale imperniata sul popolo e caratterizzata dalla partecipazione e dalla solidarietà privata; e la civiltà del principe imperniata sulla figura del sovrano, che si esprime nei caratteri dell’autorità e dell’assistenzialismo pubblico (regalie, grazie, condoni, proroghe).
A Milano e nel settentrione si è affermata la mentalità giansenista volta al conseguimento del “risultato”[6] e produttrice di una tensione all’efficienza (nell’assunto morale che l’uomo giusto è colui che ottiene il successo). Mentalità che ha condotto i nostri concittadini ad occuparsi, secondo la definizione datane dell’amico Giorgio Rumi, del proprio “particulare”: cioè dei propri affari, delle proprie cose di famiglia.
E certamente una società fortemente ripiegata sulla cura dei propri interessi difficilmente riesce ad esprimere figure politiche o legate alla gestione degli interessi generali.[7]
Sicchè, mentre il meridione “esporta” in Italia prevalentemente burocrazia[8] e politica, il settentrione fornisce prevalentemente “attitudini” economiche anche perché, come si è sovente dimostrato, chi è un buon uomo d’affari difficilmente è altrettanto buon politico o buon amministratore pubblico. Questo almeno è quanto è avvenuto prevalentemente nel corso della storia politica dell’Italia post-unitaria.
Quindi, già le specificità culturali e di mentalità (dovute alle richiamate ragioni di carattere storico) la dicono lunga sulle diversità tra Nord e Sud.
Ma, esiste anche una differenziazione etico-sociale: che, per la verità, non è strettamente legata a fattori territoriali; anche se (e lo dico sommessamente e cautamente) qualche differenza, su questo piano, sussiste tra Nord e Sud. Ma essa non è certamente legata al maggior o minor grado di senso etico delle popolazioni. Semmai alla maggiore o minore efficienza del sistema istituzionale e sociale.
In altre parole c’è un’Italia ligia alle leggi, fedele al dovere fiscale, osservante i principi della reciproca convivenza. E c’è un’Italia sommersa che non solo si arrangia lavorando in nero (5 milioni di lavoratori), evade le tasse, e fa in tal modo già concorrenza a chi non si permette tali comportamenti. C’è un’Italia che non paga deliberatamente i servizi pubblici, con l’accondiscendenza di un apparato pubblico che sovente confonde il welfare state con il chiudere un occhio sul rispetto dei doveri sociali, da parte dei cittadini, per permettere loro di “sopravvivere” (insomma, la legittimazione dell’arte di arrangiarsi).
C’è soprattutto una Italia alla macchia che gestisce o è gestita dalla criminalità grande, piccola, occasionale o legata al territorio, che costituisce un sistema anomico dentro il sistema istituzionale.[9]
Situazioni tutte che costituiscono sacche di malcostume, di privilegio, di sperequazione, di fronte alle quali il cittadino osservante la legalità non può che ribellarsi.
Tutto un mondo di asocialità e di illegalità che si autoalimenta progressivamente soffocando il mondo della legalità.
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Tanto che il cittadino “a regime” si sente oggi sempre più insicuro e non protetto; sempre meno difeso dallo Stato. Non solo sul piano della giustizia distributiva e dell’equità, ma anche sul piano fisico, della sicurezza personale e della certezza dei diritti.
La questione della giustizia è sempre stata il paradigma dei grandi processi storici. Ed oggi, la questione settentrionale rischia, per traslato, di identificarsi con la questione morale del paese, trasformandosi nell’ansia di rinnovamento, di giustizia e di democrazia, che si avverte nel paese; una democrazia che non sia solo legalità, ma si regga sull’equilibrio tra libertà ed equità, tra sviluppo e giustizia.
Il caso della Lombardia
Emblematico è il caso della Lombardia.
Vero gigante istituzionale e socio-economico questa regione d’Italia è fra le prime dieci regioni europee quanto a PIL.
E’ al primo posto in Italia ed al secondo in Europa (dopo il Baden Württemberg) quanto a densità industriale. Una delle quattro regioni motori d’Europa, insieme alla Catalogna, al Rhône Alpes, ed al Baden Württemberg appunto.
Sul versante nazionale essa produce 1/3 delle esportazioni nazionali ed ¼ delle entrate fiscali erariali e rappresenta la vera locomotiva economica del Paese come è stato detto.
Sul fronte internazionale, per la sua collocazione geografica e per la posizione economica, ricopre un ruolo centrale nei rapporti fra l’Italia e l’Europa: tanto da essere considerata la vera “cerniera” fra il nostro Paese ed il mondo europeo.
Ma, per reggere il passo della sfida internazionale, occorre la competitività sul piano della funzionalità e della attrattività. Anche perchè, se vogliamo che Expo 2015 divenga fattore di crescita anche dopo la chiusura dei battenti dell’Esposizione, è necessario che questo evento trovi già predisposto un sistema che possa beneficiare dello slancio propulsivo che ne deriva, e non cada nel vuoto.
E solo una efficiente rete infrastrutturale di servizi pubblici (soprattutto nel settore della mobilità delle persone, delle merci e delle informazioni; nei settori della ricerca, e dei servizi alle imprese, nel settore dell’offerta culturale e sociale alle persone) può assicurare adeguate risposte.
Ma, se prendiamo ad esempio il campo dei trasporti, troviamo che la nostra regione è al 34° posto nella graduatoria europea.
Grazie al fatto che, pur sopportando[10] circa il 20% del carico gravitazionale a livello nazionale, le opere pubbliche in termini di strade e di rete ferroviaria rappresentano poco meno del 10% del totale del paese; risultando quindi nettamente inadeguate al fabbisogno regionale arretrato ed insorgente.
– Ma anche nel campo dell’edilizia residenziale pubblica c’è una forte stasi degli investimenti; da quando lo Stato si è andato ritirando progressivamente da questo suo compito istituzionale.
– Occorre una maggiore autonomia finanziaria ed istituzionale dallo Stato.
– Infatti, per l’adeguamento infrastrutturale della regione lo Stato risponde con finanziamenti diretti assolutamente non proporzionali, né alle esigenze, né al gettito fiscale locale: mentre si avanzano proposte di istituire “tasse allo scopo” le quali, lungi dal realizzarsi in regime di invarianza del carico fiscale per il contribuente, andrebbero inevitabilmente ad aggravare una pressione tributaria già oggi gravosissima.
D’altro lato, anche la progettazione dei grandi servizi in rete nazionale, suppone tali e tante interferenze in sede decisionale da parte dello Stato, degli enti parastatali e degli enti territoriali ed ambientali competenti nelle diverse gestioni implicate, sviluppando la politica dei veti[11] per la gestione del consenso, (es. Ferrovie dello Stato – ANAS – Trasporti Alta Velocità – Comunità locali) da rendere improcrastinabile una radicale riforma in senso federalistico dei poteri decisionali in materia.[12]
Anche perché il centralismo assistenzialista dello Stato ha altresì condotto a distribuire e decentrare la rappresentanza istituzionale (le capitali in rete) ad esempio, nel campo del controllo, non secondo il criterio del riconoscimento delle eccellenze locali, bensì sulla base, presumiamo, dell’intento o di assecondare aspirazioni locali o di creare elementi di vitalizzazione artificiosa delle realtà periferiche; quando addirittura non si è pensato di mantenere questa rappresentanza nella capitale, per motivi di comodità (es. Organismo per il Controllo delle ONLUS, c.d. Autorità per il volontariato). In tal modo in Lombardia non è stata localizzata la sede di alcuna Agenzia-Autorità nazionale; se si esclude quella per l’Energia.[13]
E’ ciò che è emerso anche nel corso del Convegno “Terre Lombarde, nella tradizione e nella prospettiva” promosso, oltre che da Assoedilizia, dalla Associazione AMICI di Milano, e dall’IRER–Lombardia, nel corso del quale è stata posta l’istanza di ragionare, nell’ottica europea, in termini di regioni culturali omogenee come punti di forza nel riequilibrio dei rapporti interni ed internazionali delle singole regioni amministrative. E’ il tema di fondo di quell’impegno civile che da oltre 15 anni ci siamo assunti, con la costituzione della Associazione culturale Carlo Cattaneo di diritto Svizzero con sede in Lugano, cui ho dato vita insieme ad un gruppo di fondatori di parte italiana, convinti che una collaborazione culturale fra le due aree potrebbe senz’altro giocare un ruolo positivo nella costruzione del futuro europeo.
Gli attuali orientamenti statali
La questione Settentrionale in Italia, intesa come capacità di competere delle nostre regioni sul piano internazionale, pur presente nella coscienza del Paese,[14] è ufficialmente sconosciuta allo Stato italiano.
Il documento di Programmazione economico-finanziaria, per gli anni 2009/2013 presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché dal Ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica e dal Ministro delle Finanze, nulla dice circa la competitività delle aree socio–economiche del paese; limitandosi a prevedere agevolazioni fiscali per distretti ed a trattare della competitività dei prodotti sul piano internazionale (valorizzazione del made in Italy). Quasi che quest’ultima si possa conseguire senza la competitività del sistema-paese, nel quale la competitività delle singole regioni trainanti è il pilastro su cui deve poggiare l’efficienza complessiva italiana.
Miopemente si dà, in altri termini, per scontato che le regioni forti possano e si debbano quindi “arrangiare” da sé, dentro il sistema-paese, per conseguire quella competitività che nessuna politica nazionale si preoccupa neppure di ipotizzare.
Ancor oggi, nel I° decennio degli anni 2000, è totalmente ribaltata la logica nella quale si dovrebbe ragionare nell’interesse dell’Italia intera.
Infatti si parte dall’assunto che, affinchè il Paese prosperi, il meridione deve crescere. Ma si arriva a concludere che, siccome le imprese non stanno in piedi da sole, bisogna aiutare finanziariamente e fiscalmente l’economia e le imprese meridionali, privilegiandole fiscalmente rispetto alle altre imprese del Paese.
Comunque non è sacrificando il Nord che si favorisce la crescita del Sud.
C’è viceversa l’esigenza di una politica di potenziamento del Nord Italia quale condizione, attraverso il forte aggancio alla realtà internazionale che ne consegue, dello sviluppo e del progresso anche del mezzogiorno. Il progresso del Nord deve ridondare a vantaggio del Sud.
Un vero patto Nord/Nord, nell’interesse del Paese. Se il settentrione progredisce rimanendo fortemente agganciato all’Europa, tutta l’Italia ne beneficia; e ciascuna parte del Paese cresce organicamente sviluppando le proprie peculiarità.
L’esigenza di una sinergia fra le varie regioni settentrionali nella ricerca di un federalismo possibile, si è evidenziata peraltro in una ricerca condotta dall’Università Cattolica di Milano qualche tempo fa (sono stati intervistati 70 “opinions leaders” lombardi sulle attese nella nuova legislatura).
Un federalismo che, ritengo, potrà conseguirsi anche in forma imperfetta[15] e che certamente costituirà l’occasione storica per modernizzare la società italiana nel suo complesso e non potrà esaurirsi in un semplice decentramento di funzioni.
Esso dovrà implicare un più generale movimento dallo Stato alla società, attraverso un rafforzamento della società civile. Meno Stato, più società civile, più mercato. E dovrà costituire un vero passaggio culturale; un cambio di mentalità. Ma, nel contempo, tutto ciò non dovrà rappresentare una scusa trincerandosi dietro la quale lo Stato possa sottrarsi (se rimane inalterata la pressione fiscale) ai suoi compiti istituzionali storici in materia di welfare.
Riflessioni finali: Un’ipotesi di proposta in tema di federalismo fiscale
Vorrei dunque delineare lo scenario di fondo nel quale inquadrare conclusivamente il discorso di un possibile federalismo fiscale.
A tal fine ritengo utile ricordare alcuni dati emersi dalle ricerche compiute dal Centro Studi di Assoedilizia e pubblicati nel corso dell’anno 2007 in varie riprese sul Sole 24 Ore. Dati dai quali emergono alcune anomalie di fondo del sistema Italia rispetto alla generalità degli altri Paesi europei;
1) Anzitutto il nostro Paese presenta un rapporto particolarmente squilibrato tra il prelievo fiscale locale e quello erariale.
E’ ben vero che una costante nell’impostazione fiscale dei paesi a struttura centralizzata è rappresentata da un maggior livello del prelievo centrale rispetto a quello locale. Ma la situazione italiana è di molto lontana da quella che si registra mediamente nel resto dell’Europa.
Il 95% dell’intero gettito fiscale è assorbito dallo Stato, mentre solo il 5% (la metà di quanto si riscontra negli omologhi Paesi europei) è prelevato direttamente dagli enti locali in virtù di una autonomia impositiva ufficialmente riconosciuta (per quanto riguarda sia la istituzione, sia la gestione delle imposte).
D’altra parte, la spesa pubblica sostenuta dagli enti locali raggiunge il 27% di quella complessiva: livello questo superiore di oltre il 50% rispetto a quello registrato sempre negli altri stati europei a struttura centralizzata.
Il nostro è dunque un sistema di finanza locale derivata, decisamente basato sul meccanismo dei trasferimenti, degli investimenti diretti, dei finanziamenti erogati dallo Stato centrale, e della compartecipazione alle imposte erariali.
2) Altra anomalia del sistema fiscale italiano rispetto a quelli del resto dell’Europa (anche questa oggetto di studio da parte di Assoedilizia) è il rapporto invertito, tra il gettito delle imposte dirette e quello delle imposte indirette.
Il primo supera l’altro del 20%; mentre in Francia è l’opposto: il secondo supera il primo di circa il 30%; in Germania di quasi il 50%; in Spagna del 15%; in Portogallo del 100%.
La questione non si riduce ad un mero rilievo statistico, ma presenta riflessi pratici di grande portata.
Semplificando concettualmente, possiamo dire che nelle imposte dirette rileva la capacità contributiva legata alla produzione, più che al consumo del reddito. Esse, in altri termini, colpiscono nel contribuente non la capacità di spendere, ma quella di guadagnare. Con la conseguenza che, se i redditi non vengono dichiarati o lo sono in modo irregolare, si dà luogo all’evasione fiscale. Ricordiamo incidentalmente che il nero in Italia è stimato nell’ordine del 24% del PIL; contro il 16% della Germania, il 14% della Francia, il 12% della Gran Bretagna. Solo il Portogallo ci supera con il 30%. (Dati Banca Mondiale).
Con le indirette, viceversa, è più facile bypassare i fenomeni di evasione o di elusione, in quanto il reddito viene inciso fiscalmente, non all’atto della sua produzione ed in relazione alla sua dichiarazione da parte del contribuente, ma quando emerge in sede di spesa, di trasferimenti o di investimenti economici.
3) Altro dato che vorrei rassegnare in questa sede è quello del residuo fiscale pro capite (equivalente a quanto, per abitante, rimane allo stato centrale del prelievo erariale nelle singole aree regionali, dedotto quanto lo Stato “spende” nelle regioni stesse).
Orbene, al proposito si riscontra che in Lombardia, in Emilia, nel Veneto, (in grado minore Piemonte ed in Toscana) insomma in quasi tutta l’alta Italia, il saldo è largamente positivo a favore dello Stato. E sono queste le regioni ricche d’Italia.
In Lombardia è di 3.292 € per abitante, in Emilia Romagna di 2.643 €, in Veneto di 2.513, in Piemonte di 316, in Toscana di 180.
Nel resto del Paese il saldo è negativo: lo Stato quindi paga di più per ogni abitante di quanto percepisca di tasse. Ma è soprattutto l’evasione fiscale, maggiormente presente nelle regioni del Sud, a far la differenza. Una recente ricerca del centro Studi Cittadino e Fisco di Assoedilizia evidenzia come, a fronte di un certo allineamento tra Nord e Sud del Paese quanto a spesa delle famiglie e gettito IVA pro capite (corrispondente a quanto viene speso per abitante) c’è viceversa un gran divario quanto a gettito IRPEF, sempre pro capite.
La forbice infatti nel primo rapporto è rispettivamente del 60 e dell’80%; mentre nell’ultimo rapporto è del 180%; che significa quasi tre volte.
Da ciò si può legittimamente dedurre che nelle regioni del Sud si guadagna e si spende più o meno come al Nord (con uno scarto dipendente dal minor livello di reddito) ma non si dichiarano, in misura maggiore di quanto avvenga al Nord, i redditi percepiti.
Siamo in presenza, dunque, di una capacità fiscale pro capite diversa da regione a regione, per via della combinazione di due fattori: minor reddito e maggiore evasione.
Incidentalmente rilevo che i dati statistici dicono che il reddito delle regioni settentrionali è mediamente superiore del 35- 40% rispetto a quello delle regioni meridionali.
E’ questa la prima difficoltà sul percorso del federalismo fiscale.
Perchè è chiaro che lo stesso non può realizzarsi tout court attraverso la riserva integrale delle risorse fiscali alla regione nella quale le stesse si producono.
Si darebbe luogo ad una sperequazione evidente, contraria ai principi di solidarietà e di sussidiaretà, inammissibile in uno Stato moderno e progredito.
E d’altronde, come l’evoluzione del pensiero politico più illuminato testimonia, la perequazione non va realizzata attraverso la redistribuzione delle ricchezza attuata con lo strumento fiscale; bensì mediante il livellamento qualitativo dei servizi erogati a favore dei cittadini.
Se, dunque, perequare significa, non far diventare più ricche le regioni più povere, ma equiparare sul piano della fruizione dei servizi i cittadini delle seconde rispetto a quelli delle prime, abbiamo già un principio sul quale costruire un primo orientamento di federalismo fiscale. Le tasse, in altri termini non debbono servire per la perequazione della ricchezza fra i cittadini, ma per pagare i costi dello Stato. E la perequazione non dev’essere necessariamente assoluta, nel senso che nelle diverse regioni il livello di spesa pubblica pro capite deve essere eguale. La perequazione può e deve riferirsi solo alle spese relative ai diritti fondamentali, civili e sociali (esempio sanità, istruzione), e deve tener conto della differente capacità fiscale pro capite, nelle diverse aree regionali (perequazione imperfetta o incompleta).
A questo principio fanno seguito alcuni corollari che riassumono criteri di buona amministrazione moderna.
Primo principio: non si può pensare in alcune regioni di contrastare in tono minore l’evasione fiscale per il fatto che in quelle i cittadini godono di redditi minori.
Questo metodo, che suppone l’illegalità fiscale, oltre che essere iniquo nei confronti dei contribuenti dell’intero Paese, porta solo ad una progressiva accentuazione del divario tra ricchi e poveri nella medesima regione.
L’illegalità diffusa, sul piano fiscale, come anche in qualsiasi settore della vita sociale, è una delle condizioni più influenti sul proliferare dei fenomeni di malcostume e di malavita isolata o organizzata per il controllo del territorio.
Secondo: la trasparenza fiscale richiede che più che con lo strumento delle agevolazioni, degli sgravi, dei tagli delle esenzioni, si debba intervenire mediante incentivi rappresentati da contributi e finanziamenti. Sgravi, tagli di imposte e quant’altro non permettono di visualizzare la misura del beneficio riconosciuto al soggetto agevolato, tante volte neppure i soggetti stessi. Le imposte e le tasse si pagano per intero: a fianco e parallelamente può istituirsi un contributo pubblico ben qualificato, ed ottenibile a determinate condizioni.
Terzo: non si può pensare di equiparare le diverse regioni sul piano degli investimenti statali, sottraendo alle regioni che hanno maggiore capacità fiscale, i mezzi finanziari necessari agli investimenti strutturali ed infrastrutturali necessari alla loro crescita ed alla loro competitività.
Quarto principio: una regola generale da cui non deflettere è la buona norma di non distribuire opere pubbliche, appalti e cantieri a pioggia, come mezzo per far ricadere risorse economiche sul territorio, prescindendo da reali bisogni, (tanto che poi molte delle opere non vengono neppure realizzate).
Credo sia questa la luce più corretta nella quale cominciare a parlare di federalismo fiscale, inquadrando il ruolo della sussidiarietà. Sussidiarietà non solo verticale, dal pubblico al privato, dallo Stato al cittadino (secondo la teoria del telescopio cara a Pietro Giarda) ma orizzontale, tra enti ed istituzioni. Il principio di sussidiarietà e di adeguatezza che, in materia amministrativa deve improntare i rapporti tra i vari enti locali comporta che ad operare debba esser l’ente più adatto, nel senso di più efficace, secondo il criterio della maggior vicinanza al bisogno su cui intervenire. La sussidiarietà suppone a sua volta una maggiore autonomia degli enti locali, nel differenziare le politiche in relazione ai diversi bisogni locali, e la parallela maggiore responsabilizzazione degli stessi nella gestione delle risorse fiscali, (che implica una responsabilità, sia nella provvista delle risorse finanziarie sia nella destinazione delle stesse ai diversi bisogni).
Questo passaggio si ottiene attraverso un riequilibrio del rapporto tra prelievo fiscale centrale e prelievo locale, al quale dovrebbe essere, alla fine, affidato il compito di finanziare la spesa pubblica locale.
Ma, se ci deve essere aumento della capacità impositiva locale (a fronte di un aumento delle competenze istituzionali degli enti) questo aumento non può non essere accompagnato da una parallela ed equipollente riduzione della pressione fiscale erariale.
Certamente non è federalismo ciò che ha fatto sinora lo Stato Italiano, che ha trasferito materie, competenze e funzioni agli enti locali, senza trasferire parallelamente agli stessi le relative risorse fiscali. Costringendo gli enti locali o a venir meno ai compiti istituzionali (come è avvenuto ad esempio nel settore dell’E.R.P. non più finanziata dai fondi GESCAL), oppure ad aumentare la pressione fiscale attraverso un aggravio dell’ICI, l’istituzione delle varie addizionali o delle tasse di scopo, l’introduzione dei ticket, il ricorso allo strumento del project financing per tutti i servizi tariffabili e via discorrendo.
Il discorso del federalismo istituzionale è complicato peraltro da due fattori.
Anzitutto nella Costituzione c’è un’“area grigia”; non sono indicati infatti, né le procedure, né i soggetti che hanno il diritto di occuparsi delle diverse materie. Non è dunque chiaro chi abbia le competenza di decidere su materie i cui poteri sono ripartiti fra due o tre livelli di governo. E ciò si riverbera inevitabilmente sulle regole di finanziamento.
In secondo luogo l’autonomia locale ed il decentramento delle competenze e delle funzioni vanno conciliati con i problemi di un Paese che ha differenti livelli di reddito pro capite, tra regioni ricche e regioni povere e pure fra le stesse regioni ricche (tanto che qualcuno sostiene che il Paese non sia ancora preparato ad affrontare una compiuta riforma federalistica).
Se dunque, in attesa di una revisione complessiva del sistema istituzionale italiano (che chissà quando interverrà) dobbiamo, come cittadini, subire la politica del carciofo praticata dallo Stato italiano attraverso una progressiva riduzione di trasferimenti, di investimenti e spese dirette, di finanziamenti agli enti locali, è bene pensare ad un federalismo fiscale meno teorizzato e più pragmatistico. Basato sul principio che per ogni euro pagato in più dai contribuenti a Comuni, provincie, regioni, e a qualsiasi altro ente locale (comunità montane, consorzi di bonifica e quant’altro), se ne deve pagare uno in meno allo Stato.
Solo in questo modo si potrà pensare alla possibilità di quell’ampliamento della autonomia impositiva degli enti locali, che è condizione ineludibile perchè gli stessi possano assolvere pienamente al proprio ruolo.
Comunque, l’attuale sistema della finanza locale, non può neppure prestarsi, così com’è, ad una operazione di questo genere. Si avrebbero infatti degli effetti fortemente sperequati, perchè l’unica imposta in cui si configurano la capacità e la autonomia dell’ente locale, è l’ICI: appannaggio dei Comuni.
Una dilatazione di questa imposta, come qualcuno alla fine suggerisce, pur di venirne ad una con il federalismo fiscale, avrebbe come conseguenza quella di far pagare il costo dello stesso ad una sola categoria economica: quella dei proprietari immobiliari, in quanto possessori del bene-cespite (non già percettori del reddito, dato il suo carattere di patrimonialità). E poi, con i tagli a destra e a manca promessi o programmati, l’ICI non si sa più chi dovrà pagarla, ed in che misura.
In attesa dunque che si realizzi una compiuta riforma istituzionale che attui il federalismo in conformità alla Costituzione e quindi operi il riassetto della governance dello Stato e degli enti locali, se vogliamo evitare una asimmetria (dovuta alle due velocità che si registrano) tra il trasferimento delle materie, delle funzioni, delle competenze da un lato e la dotazione di una corrispondente adeguata autonomia impositiva in capo agli enti locali stessi d’altro lato, dobbiamo ragionare in termini elementari e concreti.
Aumentare dunque la capacità impositiva degli enti locali, ma realizzare nel contempo un maggior equilibrio tra capacità fiscale locale e prelievo locale. Credo si debbano prefigurare due livelli di intervento.
A livello regionale, occorre istituire la compartecipazione dell’ente regione alle imposte indirette erariali (anche per riequilibrare il rapporto sbilanciato che esiste fra le imposte statali).
Per quanto riguarda viceversa il livello comunale lo strumento della compartecipazione non è adatto a risolvere il problema del concorso dei city users nel finanziamento (in rapporto ai servizi goduti) del bilancio del comune nel cui territorio gli stessi esercitano l’attività lavorativa.
E’ chiaro infatti che la compartecipazione funziona a favore del Comune di residenza e non di quello in cui i cosiddetti pendolari producono il reddito lavorativo; consumandovi, nel contempo cinque o sei giorni su sette, i relativi servizi.
Occorre dunque (ma bisogna uscire dalla logica semplicistica della dilatazione dell’ICI perchè, in questo caso, il federalismo si farebbe con grave sperequazione, giova ripeterlo, a carico di una sola categoria di contribuenti) istituire una imposta comunale. Imposta che abbia la più larga base imponibile possibile, in termini di categorie e di contribuenti assoggettati. E quindi si riferisca a tutti i redditi lavorativi, prodotti nel territorio comunale, da residenti e da pendolari (imposta detraibile da quelle erariali, onde realizzare al tempo stesso l’indifferenza del contribuente ed il trasferimento della risorsa fiscale dallo Stato al Comune).
Degno di attenzione è il modello di federalismo fiscale concorrenziale, vigente in Svizzera.
Come illustrato l’anno scorso in Italia al Centro Svizzero di Milano, esso sostanzia un meccanismo virtuoso consistente nella realizzazione di una sorta di competitività del territorio sul piano fiscale.
Le diverse aree territoriali, presentando infatti ad abitanti ed operatori differenti offerte di trattamento fiscale ed, al tempo stesso, di livello dei servizi, sono in grado di esercitare, a seconda della qualità dell’offerta, un forte richiamo ai fini dell’insediamento di attività, funzioni e popolazione.
Il sistema peraltro reca in sè la spinta ad un concorso “emulativo” delle diverse Amministrazioni pubbliche nel migliorare i propri standard prestazionali.
NOTE
[1] Nel 2004 il tasso di occupazione delle quattro regioni «migliori» (Trentino Alto Adige – Veneto – Emilia Romagna – Valle d’Aosta) era quasi al 61,5% della popolazione in età di lavoro (15/65%): 22 punti percentuali in più rispetto alle tre regioni peggiori (Calabria – Sicilia – Campania) con tassi di occupazione media pari al 39,5%. Il tasso, in termini di disoccupazione è parimenti di circa il 20% (es. Campania 24,9% – Calabria 26,8%, Puglia 20,9%), mentre il PIL medio pro capite delle prime è circa il doppio di quello delle seconde.
– Una ricerca del Centro di Politica Comparata «Poleis» dell’Università Bocconi di Milano fornisce interessanti indicazioni su cinque regioni ordinarie, due del Nord (Lombardia – Emilia Romagna) e tre del Sud (Campania – Calabria – Puglia) confermando al Sud una arretratezza istituzionale.
– Il tasso di disoccupazione medio italiano è di circa l’11% della popolazione attiva (2.500.000 disoccupati in totale). Superiore a quello medio (10%) dell’U.E., mentre altri grandi paesi industrializzati hanno tassi ben inferiori: Germania 6,7%; Gran Bretagna 7,2%; Giappone 2,8%; Stati Uniti 5,5%).
2 E’ bene pensare per l’Europa a regioni omogenee che abbiano una loro autonomia (Giacomo Vaciago).
3 Gli organi, gli enti, le agenzie hanno sede a:
– Bruxelles (Cons. Ministri, Commissione, Parlamento)
– Lussemburgo (Cons. Ministri, Corte Giustizia, Parlamento, Corte dei Conti, BEI)
– Strasburgo (Parlamento)
– Francoforte ( Istituto monetario Europeo)
– Dublino (Condiz. vita e lavoro)
– Copenaghen (Ambiente)
– Londra (Farmaci)
– Alicante (Armonizzazione moneta europea)
– Lisbona (Tossicodipendenze)
– Bilbao (Sicurezza e salute sul lavoro)
– Lussemburgo (sistemi di traduzione ufficiale)
– Torino la formazione professionale condivisa con Berlino e Tessalonica
– Parma l’alimentazione
4 Se ci atteniamo ai dati ISTAT sui tassi di copertura finanziaria (capacità di coprire complessivamente le spese di ogni regione con entrate ricavate dalla regione stessa – gettito fiscale) risulta che solo sette regioni italiane sono autosufficienti (nell’ordine: Lombardia – Piemonte – Veneto – Emilia Romagna – Toscana – Marche – Lazio).
Ma se consideriamo i residui fiscali (cioè la differenza tra entrate e spese per regione a livello «pro capite») troviamo che solo quattro regioni (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto) presentano un saldo pro capite positivo; tutte le altre presentano saldi negativi.
– La situazione italiana dunque è tale per cui quattro regioni, tutte del nord, finanziano il sistema-Italia sostenendo tutte le altre.
5 Nella terza fase, un Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC), comprensivo della BCE e delle varie Banche centrali nazionali, dirige la politica monetaria dell’Unione, in totale autonomia dai singoli governi.
L’attuazione della terza fase, cioè del regime di moneta unica, suppone la riduzione delle differenze tra i tassi d’inflazione o tra i livelli di disavanzo e di debito pubblico, tra i Paesi membri che devono rispettare cinque «criteri di convergenza», detti anche i «parametri» di Maastricht. E cioè:
1) l’inflazione non deve superare di più dell’1,5 per cento quella dei tre Stati più «virtuosi»;
2) il tasso d’interesse a lungo termine non può essere più di due punti sopra la media dei tre Stati suddetti;
3) negli ultimi due anni bisogna aver rispettato i normali margini di fluttuazione dei cambi nello SME e non aver decretato nessuna svalutazione rispetto alle monete di altri Paesi membri;
4) il disavanzo, cioè il deficit annuale, non può eccedere il 3 per cento del Prodotto interno lordo (PIL);
5) il debito pubblico, cioè il complesso dell’indebitamento statale, non può essere superiore al 60 per cento dello stesso PIL.
Nell’Unione Europea l’Italia rispetta formalmente (con le tolleranze ammesse) i parametri di Maastricht.
Cinque i criteri di convergenza monetaria e finanziaria tra i vari paesi dell’Unione per contenere il debito pubblico totale ed il deficit annuale di bilancio per garantire la stabilità dei prezzi e quindi evitare l’inflazione e dei tassi di cambio tra le valute (per contenere i tassi di interesse e quindi per favorire la crescita e ridurre l’indebitamento.
Ma il rispetto di tale schema paradigmatico è ottenuto con grandi costi interni.
Infatti, sul piano sostanziale, l’Italia non è allineata agli standards – parametri economici e fiscali degli altri Paesi.
– La pressione fiscale ufficiale (anno 2008), pari al 43,4% del PIL, sconta il peso di un’evasione fiscale di circa il 18% del PIL (oltre 100 miliardi di imposte evase).
Mentre la pressione fiscale reale calcolata su un PIL depurato della quota di nero, ammonta a oltre il 51% circa.
– Parimenti il sommerso è equivalente al 24% del PIL. Contro il 16% della Germania, il 14% della Francia, il 12% della Gran Bretagna.
In tal modo il carico fiscale per i cittadini a regime sul piano fiscale è di gran lunga più gravoso che nel resto dell’Europa.
– Al contribuente italiano a regime, non interessa tanto il dato della pressione fiscale ufficiale, che è ricavato in rapporto ad un PIL teorico, comprendente una quota presunta di economia sommersa- per cui siamo al paradosso che, più alta è l’evasione e minore è il dato indicatore della pressione fiscale. E questa conclusione si ricava analizzando i criteri esplicitati dall’ ISTAT, in relazione alla determinazione del dato indicante la misura del PIL.
Interessa viceversa il rapporto tra il carico complessivo del prelievo fiscale (imposte dirette ed indirette) e dei contributi sociali da un lato, ed il PIL reale-depurato della quota presunta di sommerso- d’altro lato.
Questo dato è, secondo i calcoli del Centro Studi Cittadino e Fisco di Assoedilizia, pari a circa il 54%.
A formarlo concorrono peraltro solo coloro che pagano le tasse (gli evasori pagano solo parte di IVA) e, fra loro, non tutti allo stesso modo. Alcune categorie sono colpite maggiormente dalla pressione fiscale, a seconda del regime tributario che le riguarda.
Solo rilevando il PIL reale è possibile visualizzare quanto incidono imposte ed oneri sociali, nei confronti di coloro che effettivamente li pagano, e non viceversa della massa di coloro che complessivamente operano in Italia, comprendente ovviamente anche gli evasori fiscali per i quali è assolutamente indifferente il grado più o meno elevato della pressione fiscale. Poiché essi, secondo l’ISTAT concorrono a determinare il PIL, ma non concorrono a formare il gettito né erariale, né contributivo.
La maggior parte delle aliquote fiscali è «caricata» del peso della quota di evasione da compensare e dunque risulta superiore a quella media europea.
– Non si tiene peraltro conto della perdita di capacità di acquisto della moneta, a causa dell’inflazione intervenuta, da almeno 20 anni, con conseguente rilevante effetto di fiscal drag.
6 Giuseppe De Rita, pres. CNEL, 1995 CAIDATE: Convegno «Dalla cultura dell’eccellenza all’etica della solidarietà» – Il risultato, i processi.
7 Fondazione Abrosianeum Milano: Rapporto sulla città, 1992.
8 Circa 4.200.000 addetti alle amministrazioni pubbliche (il 22% della forza lavoro italiana) di cui quasi il 70% è di origine meridionale.
La Francia ha il 23% della forza lavoro occupata nella P.A., ma il servizio è nettamente migliore.
9 Nel meridione mafia, camorra, sacra corona unita, ’ndrangheta controllano il territorio, interferendo nell’attività di cantieri, ospedali, appalti, opere pubbliche, servizi pubblici.
10 Su circa 8% del territorio nazionale il 15,7% della popolazione ed il 17,5% dei veicoli nazionali in circolazione: abbiamo il 9% delle strade ed il 9,5% delle ferrovie nazionali.
11 CFR. Lettera: Club The European House-Ambrosetti. Marzo 2007 Il sistema (non) decisionale del nostro Paese: un costosissimo autogol.
12 Nella soluzione del problema creato dall’innalzamento della falda freatica a Milano sono implicate le competenze di ben 13 enti (Es. Comune – Provincia – Regione – Protezione Civile – Magistrato delle Acque – Autorità di bacino ecc.)
13 Così, il garante per l’Editoria, l’Autorità per la privacy, quella per le Telecomunicazioni e la TV, e l’Antritrust, la Agenzia per la tutela dell’ambiente, l’Organismo di Controllo delle ONLUS (Agenzia per il volontariato), la CONSOB.
– Una indagine condotta dall’Università Cattolica di Milano 1999/2000 (Proff. Cesareo – Lanzetti – Rovati) sul tema «Attese della società civile Lombarda per una nuova legislatura» ha portato tra l’altro ad evidenziare l’esigenza di istituire per i controlli, Autorities indipendenti regionali.<
…
La questione meridionale italiana, da quasi un secolo al centro del dibattito storiografico
e politico nel nostro Paese, può sintetizzarsi (se mi è permesso, per economia del discorso, ricorrere a tesi ed enunciazioni), nel dilemma se debba pensarsi ad un Sud sottosviluppato “come condizione” dello sviluppo nel Nord o piuttosto ad un Sud sottosviluppato nonostante il progresso del Nord.
Parallelamente e correlativamente una questione settentrionale potrebbe oggi, per grandi linee, affacciarsi in questi termini problematici: se ed in quale maniera il Nord possa, nell’interesse del Paese, concorrere nella sfida della competizione internazionale nonostante il sottosviluppo del Sud, o se possa da questo in qualche modo risultare condizionato.
* * *
Nella recente campagna elettorale per le votazioni politiche del 2008 entrambi gli schieramenti hanno convenuto sulla riconoscibilità di un certo disagio, di un malessere del Nord Italia a proposito di una sua capacità autopropulsiva sul piano di un adeguato sviluppo: soprattutto alla luce della sfida internazionale da affrontare.
Alcuni sostenendo un’idea più avanzata sul piano del “federalismo”, soprattutto in campo fiscale; altri più sfumatamente parlando di “regionalismo”, in aderenza sostanzialmente all’idea di una maggiore autonomia dell’ente locale.
Ma poi inevitabilmente nelle risposte degli uni e degli altri sono emerse tutte le tematiche del dibattito generale: dai principi di interdipendenza, di sussidiarietà, di solidarietà, al policentrismo ed al cosmopolitismo.
Il tutto inquadrato in un sistema che sia in grado di conciliare le esigenze di autogoverno–partecipazione locale, con la salvaguardia del principio di unità-solidarietà nazionale.
Valutazione – effetti
C’è alla base della questione settentrionale il problema di un’Italia a deux vitesses, come dicono i francesi.
Un Settentrione, progredito e dinamico ed un Meridione caratterizzato da una originaria arretratezza economico–strutturale e da un ridotto dinamismo economico come è testimoniato, tra l’altro (attesi i recentissimi dati ISTAT), oltre che dal differente livello di capacità fiscale pro capite, dal più elevato numero di abitazioni occupate direttamente dai proprietari (indice di una società statica). Caratteri questi che la politica del welfare state (in versione italiana) praticata in tutti questi anni nel nostro paese non è stata capace di rettificare se non in parte.
L’assistenzialismo centralistico verso le regioni del Sud ha dato luogo infatti a ingenti trasferimenti finanziari alle famiglie senza la contestuale creazione di nuovi posti di lavoro.
Si è in tal modo sviluppato nel mezzogiorno un modello di società dei consumi senza una corrispondente produzione.[1]
Lo Stato Italiano ha così sottratto ingenti risorse finanziarie agli investimenti in infrastrutture di servizio, tanto al Nord, quanto al Sud; dove peraltro gli investimenti realizzati non hanno potuto innestarsi in un efficiente e funzionale sistema socio-economico di base in grado di consentirne la piena esplicazione della potenzialità.
Una Italia a due velocità dunque, dove il sistema dello Stato centralizzato ha teso sempre alla unificazione del trattamento delle situazioni locali differenti. Sul piano istituzionale, culturale, fiscale, del regime del lavoro. La logica è stata quella di rendere più ricche le regioni più povere; mentre sarebbe stato più corretto equiparare i cittadini delle diverse regioni, sul piano della fruizione dei servizi.
E certamente, come ricordava Carlo Cattaneo, non c’è modo migliore per evidenziare le diversità, che trattare in modo eguale due situazioni differenti. E’ come imporre un abito della stessa taglia a due uomini l’uno grande e l’altro piccolo; non va bene né all’uno, né all’altro.[2]
La storia è nota. I padri fondatori dello Stato italiano, al tempo della unificazione, (lo ricorda Sabino Cassese nel suo volumetto “Lo Stato introvabile”) erano inclini al decentramento. Ma lo sviluppo del seme del decentramento fu arrestato dal prorompere della questione meridionale.
Venendo ai nostri giorni, nel nostro Paese attorno al ’92 la situazione di crisi causata da una ventennale politica del rinvio delle decisioni sui nodi cruciali, avrebbe potuto esplodere da un momento all’altro in catastrofe economico-finanziaria se non fosse stato per la straordinaria vitalità del sistema economico-istituzionale (la miriade di imprese medio piccole), e per una sorta di “religiosità civile” fatta di lavoro, di risparmio e di senso di responsabilità (mostrato anche dai sindacati dei lavoratori) che hanno impedito al sistema di degenerare.
* * *
Quanto agli effetti sul piano internazionale, il Centralismo in Italia oltre che deprimere Nord e Sud ha portato anche alla perdita di un ruolo Europeo.
Perché esso ha condotto non all’incremento, bensì alla riduzione delle eccellenze nazionali, quanto mai necessarie nella competizione internazionale.
Non diversamente va letto quello che può ritenersi l’organigramma di organi, istituzioni ed agenzie dell’Unione Europea, dove, pur seguendosi il modello della “capitale reticolare” (delocalizzazioni e decentramenti di funzioni e di rappresentatività), all’Italia è riservata la posizione di fanalino di coda.[3]
Lo sviluppo del pensiero più recente
Certo è che da dieci anni a questa parte il problema dell’Italia a due velocità, che si chiami federalismo, piuttosto che regionalismo, è diventato la questione settentrionale del nostro Paese.
Già nel 1990/1992 la fondazione Giovanni Agnelli di Torino diretta dal prof. Marcello Pacini nel volume “La Padania, una regione italiana in Europa” apre su basi scientifiche un discorso ampiamente “avvertito” da quell’opinione pubblica che, uscendo dall’interna riflessione di illuminate minoranze, scopriva l’indifferibile urgenza del federalismo.
Tanto che, nel 1994 lo stesso prof. Pacini, nel documento della Fondazione sul tema “Scelta federale ed unità nazionale” avanzava l’ipotesi di suddividere il territorio nazionale (riaggregazioni regionali) in 12 macro-regioni (contro le attuali 20) secondo criteri di copertura finanziaria o fiscali/territoriali.[4]
Nel frattempo alcuni critici cavalcavano l’attacco allo Stato centralista ed interventista; accusandolo di aver profuso invano le proprie risorse dissanguando le finanze pubbliche nel buco nero, nel pozzo senza fondo del “Sud assistito”.
L’antistatalismo liberista e federalista si trasforma in antimeridionalismo: la questione del Nord è la questione del suo sfruttamento da parte del Sud “parassita”.
La stessa Chiesa cattolica, nel 1996, con il documento della “Commissione giustizia e Pace” della Diocesi di Milano ragiona sull’introduzione di un “regionalismo forte”, di un “federalismo solidale” che poggino su una nuova cultura delle istituzioni (il passaggio dal cittadino utente-cliente al cittadino che conosce, decide, controlla: dal costume della passività, all’etica della responsabilità) e che mirino ad edificare la sovranità dal basso secondo i più genuini principi della democrazia partecipata. Una sorta di società amicale nella quale i poteri della cittadinanza siano da tutti esercitati nell’equilibrio dei diritti e dei doveri e si creino le condizioni effettive per un incontro efficace tra risorse e bisogni
Le categorie economiche e le parti sociali, per parte loro, avvertivano l’urgenza di una riforma istituzionale in campo tributario, rilevando l’esistenza di vaste aree di sperequazione sul piano non solo geografico, ma anche dei diversi settori economici, e dei differenti livelli di responsabilità sociale e personale.
Ricordo un nostro convegno di ASSOEDILIZIA nell’ottobre del 1995, nel quale l’allora Sindaco di Milano, Marco Formentini ed il Vice Presidente del Senato Marcello Staglieno posero fortemente la questione di una riforma fiscale in senso federalistico, denunciando il sistema dei cosiddetti trasferimenti statali gravemente punitivo della proprietà immobiliare, colpita dall’I.C.I. (Imposta Comunale sugli Immobili) in ragione inversamente proporzionale ai tagli dei trasferimenti stessi dallo Stato ai Comuni medesimi. L’11 ottobre dell’anno scorso, parimenti Assoedilizia tenne, con l’Università degli Studi di Milano, un Convegno sul tema del federalismo fiscale nel quale sostanzialmente si prese atto di alcune preoccupanti distorsioni, in sede di attuazione del principio, soprattutto a danno dei contribuenti ICI.
I fondamenti culturali – le diversità italiane
Certamente, la questione non va posta in termini di rivendicazione culturale o peggio campanilistica.
Anche se, sul piano culturale sociale ed etico, esistono ampie sfere di differenziazione tra Nord e Sud.[5]
D’altronde si può dire, come qualcuno sostiene, che l’Italia si presenta non a due, bensì a tre, ed a quattro velocità.
Esiste una differenziazione culturale: cioè di carattere, di costume, di mentalità. C’è una linea di demarcazione fra gli italiani che gravitano su Roma e quelli che gravitano su Milano.
I primi, provenendo per lo più dalle regioni centro-meridionali non diventano romani. La romanità è un carattere poco contagioso e comunicabile: è avvezza alla chiusura secolare propria di chi riceve, per usare l’aforisma di Aristofane, “nottole ad Atene” e dipende da una burocrazia legata ad un potere imperituro: quello della Chiesa.
Chi approda a Roma tende a statalizzarsi.
Chi gravita su Milano tende a milanesizzarsi (Montanelli): viene conquistato cioè da quella capacità della città ambrosiana di far sentire a casa propria chiunque vi operi, perché lo fa sentire attivamente coinvolto nel processo di costruzione del futuro della città e del paese. Si tratta, nel sistema Italia, di due culture diverse non antagoniste, ma complementari: per cui non può pensarsi di ridurre la complementarietà all’omogeneità.
La civiltà comunale imperniata sul popolo e caratterizzata dalla partecipazione e dalla solidarietà privata; e la civiltà del principe imperniata sulla figura del sovrano, che si esprime nei caratteri dell’autorità e dell’assistenzialismo pubblico (regalie, grazie, condoni, proroghe).
A Milano e nel settentrione si è affermata la mentalità giansenista volta al conseguimento del “risultato”[6] e produttrice di una tensione all’efficienza (nell’assunto morale che l’uomo giusto è colui che ottiene il successo). Mentalità che ha condotto i nostri concittadini ad occuparsi, secondo la definizione datane dell’amico Giorgio Rumi, del proprio “particulare”: cioè dei propri affari, delle proprie cose di famiglia.
E certamente una società fortemente ripiegata sulla cura dei propri interessi difficilmente riesce ad esprimere figure politiche o legate alla gestione degli interessi generali.[7]
Sicchè, mentre il meridione “esporta” in Italia prevalentemente burocrazia[8] e politica, il settentrione fornisce prevalentemente “attitudini” economiche anche perché, come si è sovente dimostrato, chi è un buon uomo d’affari difficilmente è altrettanto buon politico o buon amministratore pubblico. Questo almeno è quanto è avvenuto prevalentemente nel corso della storia politica dell’Italia post-unitaria.
Quindi, già le specificità culturali e di mentalità (dovute alle richiamate ragioni di carattere storico) la dicono lunga sulle diversità tra Nord e Sud.
Ma, esiste anche una differenziazione etico-sociale: che, per la verità, non è strettamente legata a fattori territoriali; anche se (e lo dico sommessamente e cautamente) qualche differenza, su questo piano, sussiste tra Nord e Sud. Ma essa non è certamente legata al maggior o minor grado di senso etico delle popolazioni. Semmai alla maggiore o minore efficienza del sistema istituzionale e sociale.
In altre parole c’è un’Italia ligia alle leggi, fedele al dovere fiscale, osservante i principi della reciproca convivenza. E c’è un’Italia sommersa che non solo si arrangia lavorando in nero (5 milioni di lavoratori), evade le tasse, e fa in tal modo già concorrenza a chi non si permette tali comportamenti. C’è un’Italia che non paga deliberatamente i servizi pubblici, con l’accondiscendenza di un apparato pubblico che sovente confonde il welfare state con il chiudere un occhio sul rispetto dei doveri sociali, da parte dei cittadini, per permettere loro di “sopravvivere” (insomma, la legittimazione dell’arte di arrangiarsi).
C’è soprattutto una Italia alla macchia che gestisce o è gestita dalla criminalità grande, piccola, occasionale o legata al territorio, che costituisce un sistema anomico dentro il sistema istituzionale.[9]
Situazioni tutte che costituiscono sacche di malcostume, di privilegio, di sperequazione, di fronte alle quali il cittadino osservante la legalità non può che ribellarsi.
Tutto un mondo di asocialità e di illegalità che si autoalimenta progressivamente soffocando il mondo della legalità.
* * *
Tanto che il cittadino “a regime” si sente oggi sempre più insicuro e non protetto; sempre meno difeso dallo Stato. Non solo sul piano della giustizia distributiva e dell’equità, ma anche sul piano fisico, della sicurezza personale e della certezza dei diritti.
La questione della giustizia è sempre stata il paradigma dei grandi processi storici. Ed oggi, la questione settentrionale rischia, per traslato, di identificarsi con la questione morale del paese, trasformandosi nell’ansia di rinnovamento, di giustizia e di democrazia, che si avverte nel paese; una democrazia che non sia solo legalità, ma si regga sull’equilibrio tra libertà ed equità, tra sviluppo e giustizia.
Il caso della Lombardia
Emblematico è il caso della Lombardia.
Vero gigante istituzionale e socio-economico questa regione d’Italia è fra le prime dieci regioni europee quanto a PIL.
E’ al primo posto in Italia ed al secondo in Europa (dopo il Baden Württemberg) quanto a densità industriale. Una delle quattro regioni motori d’Europa, insieme alla Catalogna, al Rhône Alpes, ed al Baden Württemberg appunto.
Sul versante nazionale essa produce 1/3 delle esportazioni nazionali ed ¼ delle entrate fiscali erariali e rappresenta la vera locomotiva economica del Paese come è stato detto.
Sul fronte internazionale, per la sua collocazione geografica e per la posizione economica, ricopre un ruolo centrale nei rapporti fra l’Italia e l’Europa: tanto da essere considerata la vera “cerniera” fra il nostro Paese ed il mondo europeo.
Ma, per reggere il passo della sfida internazionale, occorre la competitività sul piano della funzionalità e della attrattività. Anche perchè, se vogliamo che Expo 2015 divenga fattore di crescita anche dopo la chiusura dei battenti dell’Esposizione, è necessario che questo evento trovi già predisposto un sistema che possa beneficiare dello slancio propulsivo che ne deriva, e non cada nel vuoto.
E solo una efficiente rete infrastrutturale di servizi pubblici (soprattutto nel settore della mobilità delle persone, delle merci e delle informazioni; nei settori della ricerca, e dei servizi alle imprese, nel settore dell’offerta culturale e sociale alle persone) può assicurare adeguate risposte.
Ma, se prendiamo ad esempio il campo dei trasporti, troviamo che la nostra regione è al 34° posto nella graduatoria europea.
Grazie al fatto che, pur sopportando[10] circa il 20% del carico gravitazionale a livello nazionale, le opere pubbliche in termini di strade e di rete ferroviaria rappresentano poco meno del 10% del totale del paese; risultando quindi nettamente inadeguate al fabbisogno regionale arretrato ed insorgente.
– Ma anche nel campo dell’edilizia residenziale pubblica c’è una forte stasi degli investimenti; da quando lo Stato si è andato ritirando progressivamente da questo suo compito istituzionale.
– Occorre una maggiore autonomia finanziaria ed istituzionale dallo Stato.
– Infatti, per l’adeguamento infrastrutturale della regione lo Stato risponde con finanziamenti diretti assolutamente non proporzionali, né alle esigenze, né al gettito fiscale locale: mentre si avanzano proposte di istituire “tasse allo scopo” le quali, lungi dal realizzarsi in regime di invarianza del carico fiscale per il contribuente, andrebbero inevitabilmente ad aggravare una pressione tributaria già oggi gravosissima.
D’altro lato, anche la progettazione dei grandi servizi in rete nazionale, suppone tali e tante interferenze in sede decisionale da parte dello Stato, degli enti parastatali e degli enti territoriali ed ambientali competenti nelle diverse gestioni implicate, sviluppando la politica dei veti[11] per la gestione del consenso, (es. Ferrovie dello Stato – ANAS – Trasporti Alta Velocità – Comunità locali) da rendere improcrastinabile una radicale riforma in senso federalistico dei poteri decisionali in materia.[12]
Anche perché il centralismo assistenzialista dello Stato ha altresì condotto a distribuire e decentrare la rappresentanza istituzionale (le capitali in rete) ad esempio, nel campo del controllo, non secondo il criterio del riconoscimento delle eccellenze locali, bensì sulla base, presumiamo, dell’intento o di assecondare aspirazioni locali o di creare elementi di vitalizzazione artificiosa delle realtà periferiche; quando addirittura non si è pensato di mantenere questa rappresentanza nella capitale, per motivi di comodità (es. Organismo per il Controllo delle ONLUS, c.d. Autorità per il volontariato). In tal modo in Lombardia non è stata localizzata la sede di alcuna Agenzia-Autorità nazionale; se si esclude quella per l’Energia.[13]
E’ ciò che è emerso anche nel corso del Convegno “Terre Lombarde, nella tradizione e nella prospettiva” promosso, oltre che da Assoedilizia, dalla Associazione AMICI di Milano, e dall’IRER–Lombardia, nel corso del quale è stata posta l’istanza di ragionare, nell’ottica europea, in termini di regioni culturali omogenee come punti di forza nel riequilibrio dei rapporti interni ed internazionali delle singole regioni amministrative. E’ il tema di fondo di quell’impegno civile che da oltre 15 anni ci siamo assunti, con la costituzione della Associazione culturale Carlo Cattaneo di diritto Svizzero con sede in Lugano, cui ho dato vita insieme ad un gruppo di fondatori di parte italiana, convinti che una collaborazione culturale fra le due aree potrebbe senz’altro giocare un ruolo positivo nella costruzione del futuro europeo.
Gli attuali orientamenti statali
La questione Settentrionale in Italia, intesa come capacità di competere delle nostre regioni sul piano internazionale, pur presente nella coscienza del Paese,[14] è ufficialmente sconosciuta allo Stato italiano.
Il documento di Programmazione economico-finanziaria, per gli anni 2009/2013 presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché dal Ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica e dal Ministro delle Finanze, nulla dice circa la competitività delle aree socio–economiche del paese; limitandosi a prevedere agevolazioni fiscali per distretti ed a trattare della competitività dei prodotti sul piano internazionale (valorizzazione del made in Italy). Quasi che quest’ultima si possa conseguire senza la competitività del sistema-paese, nel quale la competitività delle singole regioni trainanti è il pilastro su cui deve poggiare l’efficienza complessiva italiana.
Miopemente si dà, in altri termini, per scontato che le regioni forti possano e si debbano quindi “arrangiare” da sé, dentro il sistema-paese, per conseguire quella competitività che nessuna politica nazionale si preoccupa neppure di ipotizzare.
Ancor oggi, nel I° decennio degli anni 2000, è totalmente ribaltata la logica nella quale si dovrebbe ragionare nell’interesse dell’Italia intera.
Infatti si parte dall’assunto che, affinchè il Paese prosperi, il meridione deve crescere. Ma si arriva a concludere che, siccome le imprese non stanno in piedi da sole, bisogna aiutare finanziariamente e fiscalmente l’economia e le imprese meridionali, privilegiandole fiscalmente rispetto alle altre imprese del Paese.
Comunque non è sacrificando il Nord che si favorisce la crescita del Sud.
C’è viceversa l’esigenza di una politica di potenziamento del Nord Italia quale condizione, attraverso il forte aggancio alla realtà internazionale che ne consegue, dello sviluppo e del progresso anche del mezzogiorno. Il progresso del Nord deve ridondare a vantaggio del Sud.
Un vero patto Nord/Nord, nell’interesse del Paese. Se il settentrione progredisce rimanendo fortemente agganciato all’Europa, tutta l’Italia ne beneficia; e ciascuna parte del Paese cresce organicamente sviluppando le proprie peculiarità.
L’esigenza di una sinergia fra le varie regioni settentrionali nella ricerca di un federalismo possibile, si è evidenziata peraltro in una ricerca condotta dall’Università Cattolica di Milano qualche tempo fa (sono stati intervistati 70 “opinions leaders” lombardi sulle attese nella nuova legislatura).
Un federalismo che, ritengo, potrà conseguirsi anche in forma imperfetta[15] e che certamente costituirà l’occasione storica per modernizzare la società italiana nel suo complesso e non potrà esaurirsi in un semplice decentramento di funzioni.
Esso dovrà implicare un più generale movimento dallo Stato alla società, attraverso un rafforzamento della società civile. Meno Stato, più società civile, più mercato. E dovrà costituire un vero passaggio culturale; un cambio di mentalità. Ma, nel contempo, tutto ciò non dovrà rappresentare una scusa trincerandosi dietro la quale lo Stato possa sottrarsi (se rimane inalterata la pressione fiscale) ai suoi compiti istituzionali storici in materia di welfare.
Riflessioni finali: Un’ipotesi di proposta in tema di federalismo fiscale
Vorrei dunque delineare lo scenario di fondo nel quale inquadrare conclusivamente il discorso di un possibile federalismo fiscale.
A tal fine ritengo utile ricordare alcuni dati emersi dalle ricerche compiute dal Centro Studi di Assoedilizia e pubblicati nel corso dell’anno 2007 in varie riprese sul Sole 24 Ore. Dati dai quali emergono alcune anomalie di fondo del sistema Italia rispetto alla generalità degli altri Paesi europei;
1) Anzitutto il nostro Paese presenta un rapporto particolarmente squilibrato tra il prelievo fiscale locale e quello erariale.
E’ ben vero che una costante nell’impostazione fiscale dei paesi a struttura centralizzata è rappresentata da un maggior livello del prelievo centrale rispetto a quello locale. Ma la situazione italiana è di molto lontana da quella che si registra mediamente nel resto dell’Europa.
Il 95% dell’intero gettito fiscale è assorbito dallo Stato, mentre solo il 5% (la metà di quanto si riscontra negli omologhi Paesi europei) è prelevato direttamente dagli enti locali in virtù di una autonomia impositiva ufficialmente riconosciuta (per quanto riguarda sia la istituzione, sia la gestione delle imposte).
D’altra parte, la spesa pubblica sostenuta dagli enti locali raggiunge il 27% di quella complessiva: livello questo superiore di oltre il 50% rispetto a quello registrato sempre negli altri stati europei a struttura centralizzata.
Il nostro è dunque un sistema di finanza locale derivata, decisamente basato sul meccanismo dei trasferimenti, degli investimenti diretti, dei finanziamenti erogati dallo Stato centrale, e della compartecipazione alle imposte erariali.
2) Altra anomalia del sistema fiscale italiano rispetto a quelli del resto dell’Europa (anche questa oggetto di studio da parte di Assoedilizia) è il rapporto invertito, tra il gettito delle imposte dirette e quello delle imposte indirette.
Il primo supera l’altro del 20%; mentre in Francia è l’opposto: il secondo supera il primo di circa il 30%; in Germania di quasi il 50%; in Spagna del 15%; in Portogallo del 100%.
La questione non si riduce ad un mero rilievo statistico, ma presenta riflessi pratici di grande portata.
Semplificando concettualmente, possiamo dire che nelle imposte dirette rileva la capacità contributiva legata alla produzione, più che al consumo del reddito. Esse, in altri termini, colpiscono nel contribuente non la capacità di spendere, ma quella di guadagnare. Con la conseguenza che, se i redditi non vengono dichiarati o lo sono in modo irregolare, si dà luogo all’evasione fiscale. Ricordiamo incidentalmente che il nero in Italia è stimato nell’ordine del 24% del PIL; contro il 16% della Germania, il 14% della Francia, il 12% della Gran Bretagna. Solo il Portogallo ci supera con il 30%. (Dati Banca Mondiale).
Con le indirette, viceversa, è più facile bypassare i fenomeni di evasione o di elusione, in quanto il reddito viene inciso fiscalmente, non all’atto della sua produzione ed in relazione alla sua dichiarazione da parte del contribuente, ma quando emerge in sede di spesa, di trasferimenti o di investimenti economici.
3) Altro dato che vorrei rassegnare in questa sede è quello del residuo fiscale pro capite (equivalente a quanto, per abitante, rimane allo stato centrale del prelievo erariale nelle singole aree regionali, dedotto quanto lo Stato “spende” nelle regioni stesse).
Orbene, al proposito si riscontra che in Lombardia, in Emilia, nel Veneto, (in grado minore Piemonte ed in Toscana) insomma in quasi tutta l’alta Italia, il saldo è largamente positivo a favore dello Stato. E sono queste le regioni ricche d’Italia.
In Lombardia è di 3.292 € per abitante, in Emilia Romagna di 2.643 €, in Veneto di 2.513, in Piemonte di 316, in Toscana di 180.
Nel resto del Paese il saldo è negativo: lo Stato quindi paga di più per ogni abitante di quanto percepisca di tasse. Ma è soprattutto l’evasione fiscale, maggiormente presente nelle regioni del Sud, a far la differenza. Una recente ricerca del centro Studi Cittadino e Fisco di Assoedilizia evidenzia come, a fronte di un certo allineamento tra Nord e Sud del Paese quanto a spesa delle famiglie e gettito IVA pro capite (corrispondente a quanto viene speso per abitante) c’è viceversa un gran divario quanto a gettito IRPEF, sempre pro capite.
La forbice infatti nel primo rapporto è rispettivamente del 60 e dell’80%; mentre nell’ultimo rapporto è del 180%; che significa quasi tre volte.
Da ciò si può legittimamente dedurre che nelle regioni del Sud si guadagna e si spende più o meno come al Nord (con uno scarto dipendente dal minor livello di reddito) ma non si dichiarano, in misura maggiore di quanto avvenga al Nord, i redditi percepiti.
Siamo in presenza, dunque, di una capacità fiscale pro capite diversa da regione a regione, per via della combinazione di due fattori: minor reddito e maggiore evasione.
Incidentalmente rilevo che i dati statistici dicono che il reddito delle regioni settentrionali è mediamente superiore del 35- 40% rispetto a quello delle regioni meridionali.
E’ questa la prima difficoltà sul percorso del federalismo fiscale.
Perchè è chiaro che lo stesso non può realizzarsi tout court attraverso la riserva integrale delle risorse fiscali alla regione nella quale le stesse si producono.
Si darebbe luogo ad una sperequazione evidente, contraria ai principi di solidarietà e di sussidiaretà, inammissibile in uno Stato moderno e progredito.
E d’altronde, come l’evoluzione del pensiero politico più illuminato testimonia, la perequazione non va realizzata attraverso la redistribuzione delle ricchezza attuata con lo strumento fiscale; bensì mediante il livellamento qualitativo dei servizi erogati a favore dei cittadini.
Se, dunque, perequare significa, non far diventare più ricche le regioni più povere, ma equiparare sul piano della fruizione dei servizi i cittadini delle seconde rispetto a quelli delle prime, abbiamo già un principio sul quale costruire un primo orientamento di federalismo fiscale. Le tasse, in altri termini non debbono servire per la perequazione della ricchezza fra i cittadini, ma per pagare i costi dello Stato. E la perequazione non dev’essere necessariamente assoluta, nel senso che nelle diverse regioni il livello di spesa pubblica pro capite deve essere eguale. La perequazione può e deve riferirsi solo alle spese relative ai diritti fondamentali, civili e sociali (esempio sanità, istruzione), e deve tener conto della differente capacità fiscale pro capite, nelle diverse aree regionali (perequazione imperfetta o incompleta).
A questo principio fanno seguito alcuni corollari che riassumono criteri di buona amministrazione moderna.
Primo principio: non si può pensare in alcune regioni di contrastare in tono minore l’evasione fiscale per il fatto che in quelle i cittadini godono di redditi minori.
Questo metodo, che suppone l’illegalità fiscale, oltre che essere iniquo nei confronti dei contribuenti dell’intero Paese, porta solo ad una progressiva accentuazione del divario tra ricchi e poveri nella medesima regione.
L’illegalità diffusa, sul piano fiscale, come anche in qualsiasi settore della vita sociale, è una delle condizioni più influenti sul proliferare dei fenomeni di malcostume e di malavita isolata o organizzata per il controllo del territorio.
Secondo: la trasparenza fiscale richiede che più che con lo strumento delle agevolazioni, degli sgravi, dei tagli delle esenzioni, si debba intervenire mediante incentivi rappresentati da contributi e finanziamenti. Sgravi, tagli di imposte e quant’altro non permettono di visualizzare la misura del beneficio riconosciuto al soggetto agevolato, tante volte neppure i soggetti stessi. Le imposte e le tasse si pagano per intero: a fianco e parallelamente può istituirsi un contributo pubblico ben qualificato, ed ottenibile a determinate condizioni.
Terzo: non si può pensare di equiparare le diverse regioni sul piano degli investimenti statali, sottraendo alle regioni che hanno maggiore capacità fiscale, i mezzi finanziari necessari agli investimenti strutturali ed infrastrutturali necessari alla loro crescita ed alla loro competitività.
Quarto principio: una regola generale da cui non deflettere è la buona norma di non distribuire opere pubbliche, appalti e cantieri a pioggia, come mezzo per far ricadere risorse economiche sul territorio, prescindendo da reali bisogni, (tanto che poi molte delle opere non vengono neppure realizzate).
Credo sia questa la luce più corretta nella quale cominciare a parlare di federalismo fiscale, inquadrando il ruolo della sussidiarietà. Sussidiarietà non solo verticale, dal pubblico al privato, dallo Stato al cittadino (secondo la teoria del telescopio cara a Pietro Giarda) ma orizzontale, tra enti ed istituzioni. Il principio di sussidiarietà e di adeguatezza che, in materia amministrativa deve improntare i rapporti tra i vari enti locali comporta che ad operare debba esser l’ente più adatto, nel senso di più efficace, secondo il criterio della maggior vicinanza al bisogno su cui intervenire. La sussidiarietà suppone a sua volta una maggiore autonomia degli enti locali, nel differenziare le politiche in relazione ai diversi bisogni locali, e la parallela maggiore responsabilizzazione degli stessi nella gestione delle risorse fiscali, (che implica una responsabilità, sia nella provvista delle risorse finanziarie sia nella destinazione delle stesse ai diversi bisogni).
Questo passaggio si ottiene attraverso un riequilibrio del rapporto tra prelievo fiscale centrale e prelievo locale, al quale dovrebbe essere, alla fine, affidato il compito di finanziare la spesa pubblica locale.
Ma, se ci deve essere aumento della capacità impositiva locale (a fronte di un aumento delle competenze istituzionali degli enti) questo aumento non può non essere accompagnato da una parallela ed equipollente riduzione della pressione fiscale erariale.
Certamente non è federalismo ciò che ha fatto sinora lo Stato Italiano, che ha trasferito materie, competenze e funzioni agli enti locali, senza trasferire parallelamente agli stessi le relative risorse fiscali. Costringendo gli enti locali o a venir meno ai compiti istituzionali (come è avvenuto ad esempio nel settore dell’E.R.P. non più finanziata dai fondi GESCAL), oppure ad aumentare la pressione fiscale attraverso un aggravio dell’ICI, l’istituzione delle varie addizionali o delle tasse di scopo, l’introduzione dei ticket, il ricorso allo strumento del project financing per tutti i servizi tariffabili e via discorrendo.
Il discorso del federalismo istituzionale è complicato peraltro da due fattori.
Anzitutto nella Costituzione c’è un’“area grigia”; non sono indicati infatti, né le procedure, né i soggetti che hanno il diritto di occuparsi delle diverse materie. Non è dunque chiaro chi abbia le competenza di decidere su materie i cui poteri sono ripartiti fra due o tre livelli di governo. E ciò si riverbera inevitabilmente sulle regole di finanziamento.
In secondo luogo l’autonomia locale ed il decentramento delle competenze e delle funzioni vanno conciliati con i problemi di un Paese che ha differenti livelli di reddito pro capite, tra regioni ricche e regioni povere e pure fra le stesse regioni ricche (tanto che qualcuno sostiene che il Paese non sia ancora preparato ad affrontare una compiuta riforma federalistica).
Se dunque, in attesa di una revisione complessiva del sistema istituzionale italiano (che chissà quando interverrà) dobbiamo, come cittadini, subire la politica del carciofo praticata dallo Stato italiano attraverso una progressiva riduzione di trasferimenti, di investimenti e spese dirette, di finanziamenti agli enti locali, è bene pensare ad un federalismo fiscale meno teorizzato e più pragmatistico. Basato sul principio che per ogni euro pagato in più dai contribuenti a Comuni, provincie, regioni, e a qualsiasi altro ente locale (comunità montane, consorzi di bonifica e quant’altro), se ne deve pagare uno in meno allo Stato.
Solo in questo modo si potrà pensare alla possibilità di quell’ampliamento della autonomia impositiva degli enti locali, che è condizione ineludibile perchè gli stessi possano assolvere pienamente al proprio ruolo.
Comunque, l’attuale sistema della finanza locale, non può neppure prestarsi, così com’è, ad una operazione di questo genere. Si avrebbero infatti degli effetti fortemente sperequati, perchè l’unica imposta in cui si configurano la capacità e la autonomia dell’ente locale, è l’ICI: appannaggio dei Comuni.
Una dilatazione di questa imposta, come qualcuno alla fine suggerisce, pur di venirne ad una con il federalismo fiscale, avrebbe come conseguenza quella di far pagare il costo dello stesso ad una sola categoria economica: quella dei proprietari immobiliari, in quanto possessori del bene-cespite (non già percettori del reddito, dato il suo carattere di patrimonialità). E poi, con i tagli a destra e a manca promessi o programmati, l’ICI non si sa più chi dovrà pagarla, ed in che misura.
In attesa dunque che si realizzi una compiuta riforma istituzionale che attui il federalismo in conformità alla Costituzione e quindi operi il riassetto della governance dello Stato e degli enti locali, se vogliamo evitare una asimmetria (dovuta alle due velocità che si registrano) tra il trasferimento delle materie, delle funzioni, delle competenze da un lato e la dotazione di una corrispondente adeguata autonomia impositiva in capo agli enti locali stessi d’altro lato, dobbiamo ragionare in termini elementari e concreti.
Aumentare dunque la capacità impositiva degli enti locali, ma realizzare nel contempo un maggior equilibrio tra capacità fiscale locale e prelievo locale. Credo si debbano prefigurare due livelli di intervento.
A livello regionale, occorre istituire la compartecipazione dell’ente regione alle imposte indirette erariali (anche per riequilibrare il rapporto sbilanciato che esiste fra le imposte statali).
Per quanto riguarda viceversa il livello comunale lo strumento della compartecipazione non è adatto a risolvere il problema del concorso dei city users nel finanziamento (in rapporto ai servizi goduti) del bilancio del comune nel cui territorio gli stessi esercitano l’attività lavorativa.
E’ chiaro infatti che la compartecipazione funziona a favore del Comune di residenza e non di quello in cui i cosiddetti pendolari producono il reddito lavorativo; consumandovi, nel contempo cinque o sei giorni su sette, i relativi servizi.
Occorre dunque (ma bisogna uscire dalla logica semplicistica della dilatazione dell’ICI perchè, in questo caso, il federalismo si farebbe con grave sperequazione, giova ripeterlo, a carico di una sola categoria di contribuenti) istituire una imposta comunale. Imposta che abbia la più larga base imponibile possibile, in termini di categorie e di contribuenti assoggettati. E quindi si riferisca a tutti i redditi lavorativi, prodotti nel territorio comunale, da residenti e da pendolari (imposta detraibile da quelle erariali, onde realizzare al tempo stesso l’indifferenza del contribuente ed il trasferimento della risorsa fiscale dallo Stato al Comune).
Degno di attenzione è il modello di federalismo fiscale concorrenziale, vigente in Svizzera.
Come illustrato l’anno scorso in Italia al Centro Svizzero di Milano, esso sostanzia un meccanismo virtuoso consistente nella realizzazione di una sorta di competitività del territorio sul piano fiscale.
Le diverse aree territoriali, presentando infatti ad abitanti ed operatori differenti offerte di trattamento fiscale ed, al tempo stesso, di livello dei servizi, sono in grado di esercitare, a seconda della qualità dell’offerta, un forte richiamo ai fini dell’insediamento di attività, funzioni e popolazione.
Il sistema peraltro reca in sè la spinta ad un concorso “emulativo” delle diverse Amministrazioni pubbliche nel migliorare i propri standard prestazionali.
NOTE
[1] Nel 2004 il tasso di occupazione delle quattro regioni «migliori» (Trentino Alto Adige – Veneto – Emilia Romagna – Valle d’Aosta) era quasi al 61,5% della popolazione in età di lavoro (15/65%): 22 punti percentuali in più rispetto alle tre regioni peggiori (Calabria – Sicilia – Campania) con tassi di occupazione media pari al 39,5%. Il tasso, in termini di disoccupazione è parimenti di circa il 20% (es. Campania 24,9% – Calabria 26,8%, Puglia 20,9%), mentre il PIL medio pro capite delle prime è circa il doppio di quello delle seconde.
– Una ricerca del Centro di Politica Comparata «Poleis» dell’Università Bocconi di Milano fornisce interessanti indicazioni su cinque regioni ordinarie, due del Nord (Lombardia – Emilia Romagna) e tre del Sud (Campania – Calabria – Puglia) confermando al Sud una arretratezza istituzionale.
– Il tasso di disoccupazione medio italiano è di circa l’11% della popolazione attiva (2.500.000 disoccupati in totale). Superiore a quello medio (10%) dell’U.E., mentre altri grandi paesi industrializzati hanno tassi ben inferiori: Germania 6,7%; Gran Bretagna 7,2%; Giappone 2,8%; Stati Uniti 5,5%).
2 E’ bene pensare per l’Europa a regioni omogenee che abbiano una loro autonomia (Giacomo Vaciago).
3 Gli organi, gli enti, le agenzie hanno sede a:
– Bruxelles (Cons. Ministri, Commissione, Parlamento)
– Lussemburgo (Cons. Ministri, Corte Giustizia, Parlamento, Corte dei Conti, BEI)
– Strasburgo (Parlamento)
– Francoforte ( Istituto monetario Europeo)
– Dublino (Condiz. vita e lavoro)
– Copenaghen (Ambiente)
– Londra (Farmaci)
– Alicante (Armonizzazione moneta europea)
– Lisbona (Tossicodipendenze)
– Bilbao (Sicurezza e salute sul lavoro)
– Lussemburgo (sistemi di traduzione ufficiale)
– Torino la formazione professionale condivisa con Berlino e Tessalonica
– Parma l’alimentazione
4 Se ci atteniamo ai dati ISTAT sui tassi di copertura finanziaria (capacità di coprire complessivamente le spese di ogni regione con entrate ricavate dalla regione stessa – gettito fiscale) risulta che solo sette regioni italiane sono autosufficienti (nell’ordine: Lombardia – Piemonte – Veneto – Emilia Romagna – Toscana – Marche – Lazio).
Ma se consideriamo i residui fiscali (cioè la differenza tra entrate e spese per regione a livello «pro capite») troviamo che solo quattro regioni (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto) presentano un saldo pro capite positivo; tutte le altre presentano saldi negativi.
– La situazione italiana dunque è tale per cui quattro regioni, tutte del nord, finanziano il sistema-Italia sostenendo tutte le altre.
5 Nella terza fase, un Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC), comprensivo della BCE e delle varie Banche centrali nazionali, dirige la politica monetaria dell’Unione, in totale autonomia dai singoli governi.
L’attuazione della terza fase, cioè del regime di moneta unica, suppone la riduzione delle differenze tra i tassi d’inflazione o tra i livelli di disavanzo e di debito pubblico, tra i Paesi membri che devono rispettare cinque «criteri di convergenza», detti anche i «parametri» di Maastricht. E cioè:
1) l’inflazione non deve superare di più dell’1,5 per cento quella dei tre Stati più «virtuosi»;
2) il tasso d’interesse a lungo termine non può essere più di due punti sopra la media dei tre Stati suddetti;
3) negli ultimi due anni bisogna aver rispettato i normali margini di fluttuazione dei cambi nello SME e non aver decretato nessuna svalutazione rispetto alle monete di altri Paesi membri;
4) il disavanzo, cioè il deficit annuale, non può eccedere il 3 per cento del Prodotto interno lordo (PIL);
5) il debito pubblico, cioè il complesso dell’indebitamento statale, non può essere superiore al 60 per cento dello stesso PIL.
Nell’Unione Europea l’Italia rispetta formalmente (con le tolleranze ammesse) i parametri di Maastricht.
Cinque i criteri di convergenza monetaria e finanziaria tra i vari paesi dell’Unione per contenere il debito pubblico totale ed il deficit annuale di bilancio per garantire la stabilità dei prezzi e quindi evitare l’inflazione e dei tassi di cambio tra le valute (per contenere i tassi di interesse e quindi per favorire la crescita e ridurre l’indebitamento.
Ma il rispetto di tale schema paradigmatico è ottenuto con grandi costi interni.
Infatti, sul piano sostanziale, l’Italia non è allineata agli standards – parametri economici e fiscali degli altri Paesi.
– La pressione fiscale ufficiale (anno 2008), pari al 43,4% del PIL, sconta il peso di un’evasione fiscale di circa il 18% del PIL (oltre 100 miliardi di imposte evase).
Mentre la pressione fiscale reale calcolata su un PIL depurato della quota di nero, ammonta a oltre il 51% circa.
– Parimenti il sommerso è equivalente al 24% del PIL. Contro il 16% della Germania, il 14% della Francia, il 12% della Gran Bretagna.
In tal modo il carico fiscale per i cittadini a regime sul piano fiscale è di gran lunga più gravoso che nel resto dell’Europa.
– Al contribuente italiano a regime, non interessa tanto il dato della pressione fiscale ufficiale, che è ricavato in rapporto ad un PIL teorico, comprendente una quota presunta di economia sommersa- per cui siamo al paradosso che, più alta è l’evasione e minore è il dato indicatore della pressione fiscale. E questa conclusione si ricava analizzando i criteri esplicitati dall’ ISTAT, in relazione alla determinazione del dato indicante la misura del PIL.
Interessa viceversa il rapporto tra il carico complessivo del prelievo fiscale (imposte dirette ed indirette) e dei contributi sociali da un lato, ed il PIL reale-depurato della quota presunta di sommerso- d’altro lato.
Questo dato è, secondo i calcoli del Centro Studi Cittadino e Fisco di Assoedilizia, pari a circa il 54%.
A formarlo concorrono peraltro solo coloro che pagano le tasse (gli evasori pagano solo parte di IVA) e, fra loro, non tutti allo stesso modo. Alcune categorie sono colpite maggiormente dalla pressione fiscale, a seconda del regime tributario che le riguarda.
Solo rilevando il PIL reale è possibile visualizzare quanto incidono imposte ed oneri sociali, nei confronti di coloro che effettivamente li pagano, e non viceversa della massa di coloro che complessivamente operano in Italia, comprendente ovviamente anche gli evasori fiscali per i quali è assolutamente indifferente il grado più o meno elevato della pressione fiscale. Poiché essi, secondo l’ISTAT concorrono a determinare il PIL, ma non concorrono a formare il gettito né erariale, né contributivo.
La maggior parte delle aliquote fiscali è «caricata» del peso della quota di evasione da compensare e dunque risulta superiore a quella media europea.
– Non si tiene peraltro conto della perdita di capacità di acquisto della moneta, a causa dell’inflazione intervenuta, da almeno 20 anni, con conseguente rilevante effetto di fiscal drag.
6 Giuseppe De Rita, pres. CNEL, 1995 CAIDATE: Convegno «Dalla cultura dell’eccellenza all’etica della solidarietà» – Il risultato, i processi.
7 Fondazione Abrosianeum Milano: Rapporto sulla città, 1992.
8 Circa 4.200.000 addetti alle amministrazioni pubbliche (il 22% della forza lavoro italiana) di cui quasi il 70% è di origine meridionale.
La Francia ha il 23% della forza lavoro occupata nella P.A., ma il servizio è nettamente migliore.
9 Nel meridione mafia, camorra, sacra corona unita, ’ndrangheta controllano il territorio, interferendo nell’attività di cantieri, ospedali, appalti, opere pubbliche, servizi pubblici.
10 Su circa 8% del territorio nazionale il 15,7% della popolazione ed il 17,5% dei veicoli nazionali in circolazione: abbiamo il 9% delle strade ed il 9,5% delle ferrovie nazionali.
11 CFR. Lettera: Club The European House-Ambrosetti. Marzo 2007 Il sistema (non) decisionale del nostro Paese: un costosissimo autogol.
12 Nella soluzione del problema creato dall’innalzamento della falda freatica a Milano sono implicate le competenze di ben 13 enti (Es. Comune – Provincia – Regione – Protezione Civile – Magistrato delle Acque – Autorità di bacino ecc.)
13 Così, il garante per l’Editoria, l’Autorità per la privacy, quella per le Telecomunicazioni e la TV, e l’Antritrust, la Agenzia per la tutela dell’ambiente, l’Organismo di Controllo delle ONLUS (Agenzia per il volontariato), la CONSOB.
– Una indagine condotta dall’Università Cattolica di Milano 1999/2000 (Proff. Cesareo – Lanzetti – Rovati) sul tema «Attese della società civile Lombarda per una nuova legislatura» ha portato tra l’altro ad evidenziare l’esigenza di istituire per i controlli, Autorities indipendenti regionali.<
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