Gerusalemme è stata riconosciuta, dagli Stati Uniti, capitale di Israele sin dal 1995, ma la formalizzazione è sempre stata rimandata, fino a quando Donald Trump ha dichiarato di voler trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme.
Non sono ancora chiare le tempistiche e soprattutto le motivazioni dietro questa decisione. Probabilmente il presidente intende differenziare, in modo plateale, la sua attività in politica estera rispetto a quella del suo predecessore e compattare così una parte importante del suo elettorato.
Il gesto ha suscitato il dissenso della comunità internazionale e ha scatenato la prevedibile rabbia dei palestinesi. Nonostante siano diversi i presupposti che lasciano presagire una continuazione dei disordini di questi giorni, è necessario tuttavia usare una certa cautela prima di dare per certa una nuova intifada (sebbene sia stata dichiarata), se la parola “risveglio” presuppone un’ampia insurrezione con ripercussioni importanti sull’assetto politico palestinese.
La prima, scoppiata nel 1987 e conosciuta come “intifada delle pietre” per indicare i mezzi di fortuna usati dai palestinesi, ha portato alla nascita di nuove organizzazioni dedite alla lotta armata contro Israele, la più importante delle quali è Hamas. Il movimento ha rafforzato il suo ruolo durante la seconda intifada (2000), caratterizzata infatti da una solida organizzazione politica. La violenza degli scontri ha anche sortito l’effetto di convincere la maggior parte dell’opinione pubblica mondiale che la pace sia possibile solo prevedendo la nascita di uno stato palestinese indipendente da quello israeliano.
Da allora il Medio Oriente è profondamente mutato; i cambiamenti sono ancora in corso e lo saranno per il medio e lungo periodo. Gli esiti sono tuttora incerti ma “il fronte del rifiuto”, con cui si intende l’insieme dei paesi non disposti a trattare con Israele in assenza di determinate condizioni, è spezzato, e lo è da tempo. L’Iraq, la Libia e la Siria non sono nella condizione di poter agire; in particolare Damasco, come patria del nazionalismo arabo, non è mai rimasta insensibile alla questione palestinese, sia per la sua posizione geografica, sia per l’alto numero di profughi accolti nel paese. Hafez al Assad, i cui rapporti non l’Olp non erano idilliaci, era un politico realista, diventato progressivamente consapevole che Israele era ormai una realtà strutturata in Medio Oriente; l’unico modo per arginarne l’espansione territoriale era unire gli altri stati dell’area in un’opera di contenimento. L’impresa, al di là della retorica ufficiale, è fallita.
Attualmente, Arabia Saudita e Iran sono impegnati in uno scontro che, se non ha portato ancora a una guerra dichiarata tra i due, ha risvolti in Yemen, Siria e Libano. I sauditi anzi non hanno, negli ultimi anni, preso nette distanze da Israele, proprio in funzione anti-iraniana.
Solo Egitto, Giordania e Turchia possono permettersi una minima volontà di mediazione. I fronti sono troppi per aprirne con leggerezza un altro e questo spiega l’intera preoccupazione della comunità internazionale.
Lo status giuridico di Gerusalemme è sempre stato, d’altra parte, complicato da definire e nessuna Conferenza di pace ha portato finora a una soluzione condivisa dalle parti. Israele rivendica l’intera città, acquisita militarmente durante la guerra dei Sei giorni, mentre l’Anp (Autorità nazionale palestinese) chiede che Gerusalemme est sia la capitale di un futuro (e al momento ipotetico) stato palestinese. Nel 2000, l’Anp ha dichiarato di considerare la parte orientale della città come territorio occupato, e come tale è riconosciuto anche dall’Onu e da numerosi paesi occidentali.
Le forti rimostranze a Gaza, in Cisgiordania, a Ramallah, Betlemme e Gerusalemme sono inoltre un banco di prova per l’accordo tra al Fatah e Hamas. L’intesa, iniziata gradualmente nel 2014 e firmata nel febbraio di quest’anno, tenta di porre fine ai contrasti tra i due ed è però la somma di due debolezze. Mahmud ‘Abbas (Abu Mazen), leader di al Fatah, rappresenta l’area più moderata della dirigenza palestinese, non in grado tuttavia di controllare i gruppi armati e neanche tutti i territori; ne è stata prova l’ottimo risultato elettorale di Hamas ottenuto nel 2006 nella striscia di Gaza.
La vittoria non è stata riconosciuta da gran parte della comunità internazionale, che cataloga il gruppo come terrorista, e ha portato ulteriori sanzioni verso i palestinesi. Il governo di Gaza quindi è nato debole e gli scontri tra Hamas e al Fatah del 2007 hanno ulteriormente esacerbato i dissidi, provocando inoltre successive scissioni nell’organizzazione islamista. Nel frattempo, al Fatah ha avviato colloqui con rappresentanti del governo israeliano, i quali sono però decisi a non recedere sulla possibilità di bloccare gli insediamenti di coloni in Cisgiordania e hanno proposto la West Bank come possibile nucleo della Palestina, isolando così Gaza, condizione non accettata da ‘Abbas.
L’accordo tra le diverse anime della resistenza palestinese è solo una base di partenza e sarebbe, se fosse prorogato, un’impresa notevole: occorre mostrare un fronte compatto per avere qualche possibilità negoziale e ripristinare un rapporto di fiducia con i palestinesi stessi. Le varie azioni precedenti gli attuali disordini, compresa quella che è stata frettolosamente definita “l’intifada dei coltelli”, sono nate in modo spontaneo e senza una reale pianificazione “dall’alto”, frutto più della frustrazione che di un calcolo politico.
Ovviamente un’eventuale brusca conclusione del processo di avvicinamento tra al Fatah e Hamas porterebbe alla radicalizzazione delle reciproche posizioni, allontanalo ancora una volta il processo di pace.