“Nessuno può completarci. Dobbiamo essere noi a completare noi stessi. Se non ci riusciamo la ricerca
dell’amore diventa autodistruzione. E noi ci illudiamo che questa autodistruzione sia amore” (Jong, 1973).
Se sentite che il vostro partner è tutto e non concepite alcuna esistenza senza quella persona, se vi sentite completi solo con lui/lei, mentre se lui/lei non c’è vi annullate, se pensate “senza di lui/lei non esisto”.. Se tutto gira interamente attorno alla persona che amate e il solo pensiero che vi possa abbandonare fa crollare il vostro mondo, se senza di lei vi sentite vulnerabili, abbandonati e soli, allora è bene che vi fermiate a riflettere su cosa significhi per voi stare in una relazione di coppia.
Si sa che l’uomo è naturalmente inserito in una trama di relazioni e legami senza i quali non potrebbe esistere: ognuno di noi ha bisogno di empatia, approvazione, ammirazione e di calore, e qualsiasi legame con queste caratteristiche diventa esso stesso fonte di dipendenza (Maslow, 1954).
Tutti hanno esperienza più o meno diretta di avere accanto a sé persone a cui sono strettamente legate: si tratta di una questione naturale, innata e automatica che sorge nel momento stesso in cui veniamo alla luce. Ogni relazione e tipo diattaccamento porta con sé un senso di appartenenza e dipendenza, che è parte integrante della vita. Siamo dipendenti gli uni dagli altri perché siamo animali sociali: “non possiamo non entrare in relazione. Possiamo esprimerla in senso negativo o positivo, o tacere al suo interno, ma questo non ci toglie dalla relazione con gli altri” (Ferrario).
Una certa parte di sana e innata dipendenza non impedisce alle persone di emanciparsi, accettare momenti diallontanamento e distacco dalle persone care, di seguire la propria strada e le proprie scelte nonostante le aspettative degli altri: possiamo sentire lo stesso di saper vivere per noi stessi, possiamo avere altre sfere di interessi, possiamo svolgere numerose attività. Alcuni però non hanno tutte questa libertà: per alcuni le relazione a due diventa vitale, ne hanno bisogno in maniera ossessiva per colmare la loro solitudine, per calmare l’angoscia, per non “affondare” (Poudat, 1957).
A questo livello la relazione non è basata sull’amore, ma su una dipendenza disfunzionale che diventa l’unico modo di continuare a vivere: senza un altro a cui appoggiarsi manca la forza per andare avanti. L’altro diviene un’ancora disalvezza, la fonte di ogni interesse, la priorità su ogni altra cosa.
Si sceglie inizialmente qualcuno per il suo lato rassicurante o per la sua manifesta indipendenza, ma accade che un giorno non si tolleri più proprio il suo lato appiccicoso o le sue assenze. Questo succede perché più ci si lega ad una persona per soddisfare i propri bisogni temporanei, per alleviare le paure più nascoste, per ottenere ciò che non si è mai ricevuto, più la dipendenza sarà forte e disfunzionale (Poudat, 1957). Il confine fra la dipendenza sana e patologica è molto sottile: da una dipendenza sana, in grado di favorire la crescita, si può arrivare al suo estremo, ad una dipendenza patologica che al contrario impedisce lo sviluppo e l’autorealizzazione della persona.
D’altro canto le aspettative su noi stessi, sul nostro futuro, sul partner ideale sono fortemente influenzate dalle credenze sociali e culturali e si impara presto, nella visione comune, che per essere felici si deve avere un partner da amare sopra ogni cosa: si parte così alla ricerca di rapporti che compensino i nostri vuoti e le nostre carenze, rapporti di coppia fusionali, che ci completino. In sintesi, “cerchiamo fuori, invece di guardarci dentro”.
Come definiamo, quindi, la dipendenza affettiva? Si tratta di una “una distorsione relazionale che implicaun’alterazione della rappresentazione di sé e dell’altro e un disequilibrio della risposta affettiva nell’area dell’intimità” (Borgioni, 2015). La dipendenza affettiva è una condizione relazionale negativa in cui uno (o entrambi) i partner mettono in atto comportamenti passivi stereotipati volti a mantenere le relazioni anche a costo di mettere in secondo piano i propri bisogni. La rigidità relazionale è uno degli aspetti fondamentali di questa modalità: il dipendente affettivo non riesce ad abbandonare l’illusione idealizzata dell’altro e vive nella costante angoscia che qualcosa possa cambiare, che qualcosa possa fargli perdere l’oggetto del proprio amore.
La dipendenza si colloca nella dimensione del bisogno, in quanto si percepisce una mancanza intollerabile: proprio come il bambino appena nato ha il bisogno innato della mamma per sopravvivere, nella dipendenza in età adulta la persona vuole fondersi con l’altro annullando la propria integrità dove ciò che la soddisfa è solo la realizzazione di un amore “simbiotico”, dove si tende ad avere un sentimento di controllo dettato dalla profonda paura di essere abbandonato e di rimanere solo. L’altro perde così la sua identità e non è più “altro da sè”, non è più una persona diversa e quindi autonoma nei pensieri, negli interessi: diventa il mezzo per soddisfare dei bisogni e colmare delle carenze.
Il legame dipendente genera in apparenza calore e benessere, ma in realtà porta con sé dolore, frustrazione, insicurezza, paura, ed ogni energia è consumata per mantenere l’altro vicino ed evitare che si allontani, visto che l’altro è l’unico mezzo che garantisce la sopravvivenza.
Ciò che differenzia le relazioni d’amore più sane e positive, è che in queste ultime viene mantenuta l’autonomia dei due soggetti e coesiste al tempo stesso un certo grado tollerato di dipendenza reciproca che non impedisce il distacco, bensì arricchisce le singole individualità e ne favorisce la crescita: infatti, l’indipendenza autentica è basata paradossalmente sulla capacità di dipendere dall’altro e allo stesso tempo consente all’altro di dipendere da noi (Lingiardi, 2005). Nella relazione sana possiamo dire: “Ho bisogno di te perché ti amo”. Nel suo contrario, “ti amo perchè ho bisogno di te”, si modellano, invece, le forme di dipendenza affettiva.
Nelle persone con dipendenza affettiva troviamo, in sintesi:
– una visione di sé come bisognoso di cure e sostegno e mai totalmente autonomo. In tale accezione il costrutto rigido della persona è del tipo “se sono vicino al mio partner sono capace, se sono solo sono vulnerabile e inadeguato” e crede che sia meglio non intraprendere nuove esperienze, tanto si prospetterebbe un fallimento.
-una visione del mondo esterno come pericoloso, minaccioso e non adatto a chi è fragile e quindi da evitare o da affrontare solo in compagnia di qualcun altro che possa prendere le proprie difese. La persona con questa forma di dipendenza si mostra compiacente, disponibile, evita i conflitti per paura di perdere l’altro e non riesce ad accettare i limiti e i cambiamenti naturali all’interno della coppia. Si vive nella convinzione che “se faccio il bravo, l’altro mi amerà”, pensando all’amore come qualcosa che si deve “guadagnare” adeguandosi ai bisogni del partner: l’altro è visto come una persona da gratificare e rendere felice. Si vive unicamente per il partner. Emerge così la difficoltà ad identificare i propri bisogni e la tendenza a subordinarli ai bisogni dell’altro: ogni energia spesa per amare l’altro non consente di ritagliarsi degli spazi personali.
Le persone con questa forma di dipendenza affettiva hanno difficoltà spesso a differenziare l’amore vero da un comportamento possessivo patologico del partner che cerca di invadere ogni spazio di libertà. “Pensavo che mi amasse perché voleva sapere sempre dove fossi, mi chiamava di continuo”: queste parole esprimono come si possa confondere così l’amore con il possesso, interpretando quest’ultimo come interesse amorevole. La persona dipendente arriva a sopportare più del dovuto, che siano commenti sgradevoli, rimproveri, bugie, sino all’aggressività verbale e fisica: l’idealizzazione del partner porta a giustificarne qualsiasi suo comportamento.
Un altro aspetto cruciale da considerare è che la rottura con il partner è impensabile in questa forma di dipendenza: la separazione porta un dolore inconcepibile e ingestibile. Non è contemplata alcuna forma di sana rassicurazione che faccia pensare al dolore come qualcosa di momentaneo e come qualcosa che col tempo potrà essere superato senza che questo significhi morire dentro. Perdere l’altro costringe la persona a sentire il proprio vuoto emotivo interno: la perdita è sperimentata non come perdita di una persona separata, ma come perdita di una parte di sé, come privazione del proprio valore, sicurezza, forza, volontà. Per questo a volte si tende a sopportare determinati comportamenti del
partner pur di non perdere una parte di sé.
Come si arriva a questa fragilità relazionale? Il modo in cui stabiliamo legami affettivi è condizionato dalle esperienze di attaccamento durante l’infanzia (Guix, 2011). Infatti, se i genitori sono stati in grado di soddisfare i bisogni di sicurezza e di autonomia in modo coerente e continuo, il bambino, e l’adulto poi, consoliderà un assetto emotivo e cognitivo sano.
Se, d’altro canto, i genitori si mostrano iperprotettivi, ciò potenzia invece il messaggio che “essere dipendenti è l’unico modo per mantenere un legame e, invece, individuarsi, crescere a rendersi autonomi significa perdere l’amore materno”. Così che il bambino prima e l’adulto poi, rinunciano all’autonomia affidandosi agli altri per ogni difficoltà. Si sviluppa così un’attesa e una ricerca esterna di qualcuno che offra quella sicurezza e sostegno di cui si sente il bisogno intenso (Lingiardi, 2005). Nelle famiglie soffocanti e iperprotettive viene trasmessa l’idea che il mondo è pericoloso e che, senza il proprio nido sicuro familiare, non si sopravvive. La persona dipendente fa propria l’idea di essere fragile e di non potercela fare da sola. Se, al contrario, i genitori non instaurano alcun legame autenticamente affettivo, si cercherà disperatamente qualcuno che dia, invece, l’affetto e accudimento di cui si sente il bisogno.
La ferita principale è legata in ogni caso al senso di abbandono e deprivazione, ad un senso di vergogna di di vuoto, ad un’immagine di sé come non meritevole d’amore.
Quindi, in conclusione..
In una relazione sana emerge un naturale desiderio di poter contare sull’altro, basandosi sulla fiducia e sul desiderio di condividere esperienze, di avere progetti in comune e di costruire con l’altro. Il rapporto con il partner accresce le proprie potenzialità e lo sviluppo della persona. L’eventuale rottura di una relazione è tollerata e non dà vita a reazioni patologiche (depressione, ansia, angoscia, altri comportamenti di dipendenza).
L’amore sano proietta dei desideri e non dei bisogni: in questo senso è legittimo darsi tempo e spazio di conoscere sé stessi e l’altra persona. E’ necessario riconoscere l’individualità dell’altro e la sua integrità: un amore maturo vede svilupparsi il desiderio di una crescita autonoma dell’altro. In una relazione affettiva sana troviamo momenti in cui un partner necessita il sostegno dell’altro senza mettere a rischio la propria individualità e autonomia (ad esempio, se uno dei due ha problemi di lavoro e si senta triste e sfiduciato, l’altro gli sarà vicino emotivamente e lo accudirà nel possibile;
al contrario, se uno della coppia ha dei progetti, l’altro lo supporterà nella sua realizzazione personale). La dipendenza patologica, invece, è una dipendenza assoluta basata sulla sfiducia, sul controllo e sul costante bisogno dell’altro per “sentire di esistere” e di essere qualcuno.
Uscire da questa modalità relazionale dipendente è possibile attraverso un lavoro di ricostruzione di sé: è fondamentale cercare di capire quali sono i bisogni che quel legame di dipendenza soddisfa. Si deve affrontare il dolore che la paura dell’abbandono porta con sé anche se si tratta di un dolore ritenuto ingestibile e insopportabile, si deve affrontare delusione e frustrazione. Solo questo permette di emanciparsi dalla dipendenza eccessiva dell’altro.
Mettere fine ad una dipendenza affettiva è possibile nel momento in cui si fa piena conoscenza di sé stessi, con i propri limiti e le proprie paure e si è in grado di trovare dentro sé ciò che si cercare disperatamente nell’altro. Ciò significa prendere coscienza della proprie fragilità, ma anche delle proprie risorse per vivere indipendentemente dalle aspettative altrui; si deve anche rischiare di accettare un po’ di solitudine e di fare anche ciò che fa paura, scoprendo magari che, in realtà, sperimentare e avventurarsi non è poi così spaventoso e scoprendo di essere in grado di farcela da soli con le proprie forze. Assumersi il rischio delle proprie scelte facilita un certo grado di indipendenza e permette di sperimentare situazioni liberamente “senza macigni sul cuore”, senza dare nulla per scontato, senza programmi prestabiliti. Solo questo permette alle persone ad imparare “ad andare oltre il proprio bozzolo protettivo”.
L’amore infantile segue il principio “Amo perché sono amato”.
L’amore maturo segue il principio “Sono amato perché amo”.
L’amore immaturo dice “Ti amo perché ho bisogno di te”.
L’amore maturo dice “Ho bisogno di te perché ti amo”
(E. Fromm, 1956)