Tutti hanno un vecchio professore nell’archivio mentale, io ne avevo uno di letteratura che, durante le due ore di lezione di ‘italiano’, fumava un pacchetto di ‘N lunga’. Era così ‘rotondo’ , ma così bravo che le sue lezioni mi sono entrate nel cervello insieme al fumo delle sue sigarette.
Di Indro Montanelli conservo un solo stralcio di giornale – il ricordo di un suo professore di filosofia – le colonnine ingiallite incollate su un foglio A4, datato domenica 13 settembre 1969 che non ho mai avuto il coraggio di gettare nel cestino e che qui sotto scrivendolo, rileggo per l’ultima volta:
“Con tanti giornali che il dovere professionale ci costringe a leggere, càpita spesso che ci sfuggano le notizie che più c’interessano. E così soltanto ora colgo in un settimanale quella della morte di Padre Marella.
Me l’aspettavo da tempo perché l’ultima volta che lo vidi, nell’atrio di un cinema di Bologna, me la preannunziò lui stesso, e del resto stava scritto sul suo stanco volto. Aveva compiuto da poco gli ottantacinqu’anni e il ciclo di una polmonite che lo aveva ridotto agli sgoccioli. Ma questo non gli impediva di starsene lì, nell’androne spazzato dalle correnti d’aria in quella tarda e gelida serata di gennaio, ad aspettare l’uscita della gente e porgere il cappellone nero al suo obolo. Ci deposi un biglietto da diecimila lire, e confesso che rimasi un po’ male all’indifferenza con cui lo accolse.
“Siedi qui, siedi qui, ragazzaccio!” mi disse senza ringraziarmi. Puzzava alquanto, poveruomo: con sapone non aveva mai avuto molta confidenza.
Don Marella era stato per due anni mio professore di filosofia al liceo di Rieti. Non posso dire che la sua iniziazione sortisse su di me e sugli altri miei compagni brillanti risultati. Le sue lezioni erano lunghi monologhi (…) ci alluvionava di parole incomprensibili, passeggiando in continuazione (…) Libri, egli stesso ci sconsigliava di consultare. L’unico testo che ci aveva fatto adottare era l’autobiografia di Ellen Keller che, nata cieca e sordomuta, era tuttavia riuscita a diventare scrittrice. Cosa ci fosse di filosofico in quella narrazione, non capivo. Solo più tardi mi resi conto che serviva a dimostrare una tesi cara a Marella: e cioè che l’uomo, per afferrare la realtà circostante, non ha bisogno dei sensi: questa realtà l’ha già in sé (…)
A quei tempi, la contestazione non era ancora stata inventata, ma la canaglieria lo era da un pezzo, e quell’insegnante astratto e distratto, sembrava possedere tutti i requisiti per diventarne bersaglio (…) Eppure sgarbi non ne ricevette mai (…)
Marella a quei tempi era laico, ma vestiva come un prete, con uno stiffelius che gli scendeva sotto le ginocchia, abbottonato fino alla gola e listato dalla striscia bianca di un colletto duro da clergyman…
Per strada non lo si incontrava mai che in compagnia di sua madre. La reggeva sotto braccio con trepida sollecitudine. Non viveva che per lei e di lei. In quella piccola città si era fatto presto a sapere dalla padrona di casa che gliel’ha aveva affittata che stavano in un’unica camera e dormivano nello stesso letto. Ma nemmeno in quel pettegolo e malevole ambiente provinciale il particolare aveva suscitato commenti, tanto chiara era l’innocenza di quell’amore filiale. (…)
Mio padre, preside della scuola, quando parlava di Marella aggrottava la fronte e non disse ma che, come insegnante, era una disgrazia. Ma un giorno gli scappò detto: “Non crede nella cultura”. Quanto fosse vero me ne accorsi la volta che, durante un compito in classe, fui sorpreso da Marella mentre passavo il mio a un vicino di banco disperatamente in secca sul foglio. Fece finta di nulla, anche nelle successive occasioni, dove la copiatura era evidente, anzi mostrò nei miei confronti qualche segno di simpatia: non per la bravura, ma per la carità che dimostravo passando i compiti. La bravura gl’importava così poco che a fine anno ci promosse tutti. Restammo male quando, all’inizio del terzo anno, si seppe che non sarebbe tornato. Sua madre era morta e lui prese congedo con una lettera a mio padre in cui annunciava il proprio ritiro dall’insegnamento.
Fu una sorpresa, tanti anni dopo, scoprire che Marella era diventato don Marella e aveva fondato a Bologna una specie di nomadelfia per i ragazzi abbandonati. (…) Una sorpresa perché in chiesa non l’avevamo mai visto e coi preti non bazzicava. Non volle mai dirmi come e quando si era deciso a quel passo.
Quando andai a trovarlo che giù faceva il mendicante per sfamare i suoi orfani, mi riconobbe immediatamente come il suo ‘ragazzaccio’, ma l’unico episodio che ricordò fu il sotterfugio che gli avevo fatto per aiutare quel mio compagno. Forse ignorava che, come giornalista, mi son fatto un certo nome, e comunque non gl’interessava. Per lui ero rimasto il ‘ragazzaccio’…Ritrovandolo vestito di stracci, un autentico barbone, provavo un oscuro senso d’invidia, venato di rancore. Capivo ch’era un uomo felice perché aveva realizzato il suo sogno di vivere per gli altri e questo lo metteva al di sopra e al riparo dalle nostre comuni preoccupazioni e amarezze e paure e miserie..”