Non tanto tempo fa, sul finire di quel movimento che portava la tradizione popolare da Sud a Nord, ci è stato fatto lo scherzetto dei ristoranti giapponesi. Come? Facendoci mangiare tutto! E’ stato infatti con l’espressione “all you can eat” che ci è stato presentato tutto ciò che appartiene alla cultura dell’estremo oriente, in particolare quella giapponese. Inizialmente presi con curiosità dal pubblico giovanile, successivamente apprezzati anche da un pubblico medio/alto che, stanco del rincaro dei prezzi di un risotto alla milanese, si è dato al gusto dell’economicità. Praticamente strutture che vendono il sogno di una cultura ormai facilmente raggiungibile (si pensa) per mezzo della globalizzazione. Ma siamo sicuri a non essere noi quelli a sognare? Quasi a tutti è capitato di chiedersi “come posso mangiare tutto a così poco?”.
In molti hanno risposto parlando di bassi costi di avviamento delle strutture, di guadagno sulla quantità o sulla poca qualità delle materie prime, di personale sottopagato o, addirittura, di riuscirsi ad accontentare di un guadagno misero. Ma la verità è un’altra. Sebbene molti di noi sanno di non mangiare propriamente giapponese, nessuno si è mai accorto che, in termini culturali, nella maggior parte dei ristoranti “all you can eat” non si mangia nulla. Certo, lo stomaco sarà sicuramente pieno dopo un’abbuffata. Ma siamo proprio sicuri di essere culturalmente appagati? Un quesito banale, che potrebbe non toccarci direttamente, ma che connette ad un concetto (giustamente) inevitabile dell’italianità a cui siamo abituati noi: come possiamo abbuffarci di un qualcosa che, oltre a non appartenerci, non sappiamo a chi appartiene? Ebbene, credo sia arrivato il momento di darci una risposta, ed essa la si può ritrovare in quei piatti impropriamente utilizzati dai nostri ristoranti “giapu”. Infatti, se della reale tradizione culinaria nipponica si è tanto affascinati, è bene sapere che molti ingredienti rivestono un ruolo tanto prestigioso sul territorio nipponico, quanto sul nostro. Prendiamo come esempio il riso, ingrediente ormai sottovalutato per le fatiche ereditate dalle nostre mondine, nonché protagonista assoluto delle fameliche mangiate ai ristoranti giapponesi in Italia. Beh, forse non sapevate che, nella tradizione culinaria giapponese, esso è un diritto, una materia da poter ordinare più volte senza costi aggiuntivi. Difatti, ogni chicco ne rappresenta una divinità che ci è donata per mezzo delle fatiche di chi lo ha colto e lavorato, proprio come le nostre (ma ormai dimenticate) mondine. Ma lascia ancor più amaro l’utilizzo che i “giapu” ne fanno di pesce, verdure e piante selvatiche. Se del primo si pensa di mangiarlo bene, ma ad un basso costo, forse andrebbe visto il quantitativo di pesce (a dir poco saziante) utilizzato per ogni sushi là, in Giappone. Così pensando, è proprio per il valore che i nostri ristoratori d’oriente conferiscono a questi alimenti che, ogni qualvolta ci abbuffiamo di sushi, crediamo di mangiarne tanto, con poco. Anzi, è decifrando il significato primordiale di una cultura che forse si può ridare importanza alla nostra. Ma a tal proposito, parrebbe ancor più sconvolgente sapere che, dal 2013, di tutto quel che si è parlato qui sopra, l’UNESCO ne fa un patrimonio immateriale dell’umanità. E’ infatti con la parola Washoku che si indicano gli alimenti sopracitati, delimitando un netto confine culturale tra essi e le cucine del mondo.
E’ allora, com’è possibile, specie al giorno d’oggi, abbuffarsi di un patrimonio per così pochi spicci? Questa volta, la risposta potete trovarla voi!