Mostar 2019, abbiamo incontrato un prete di frontiera che dopo avere assistito in prima persona alle atrocità della guerra ha deciso di rimanere per “costruire qualcosa”. A oltre 20 anni dal conflitto che ha incendiato i Balcani e distrutto la Bosnia ed Herzegovina, ci spetta l’amaro compito di raccontare una nazione ancora divisa, non dalla religione, ma da giochi di potere e da una politica miope. Giovani in fuga dal proprio paese per la mancanza di una prospettiva, aziende che chiudono e un futuro incerto. È questo il panorama che ci offre il don di frontiera che ci ha concesso un incontro.
Da qualche anno è impegnato nella costruzione di una chiesta nel quartiere di Bijeli Brijeg, letteralmente la Collina Bianca, situato non molto lontano dallo stadio di Mostar, formato da una distesa di alti palazzi bianchi che portano ancora il segno dei mortai e dei proiettili. Un luogo dove i bambini giocano per strada e donne affaccendate si aggirano con le buste della spesa e i loro pensieri per la testa. Se ti perdi da queste parti c’è chi è pronto a darti un passaggio in macchina e portarti con un sorriso alla chiesa in costruzione. Una decina di muratori indaffarati preparano malta e prendono misure, dalla grande porta di vetro si affaccia il prete che, con uno sguardo sorpreso per la nostra visita inaspettata, interrompe le sue attività e ci accoglie con un caffè e della rakija che alle 11 di mattina e a stomaco vuoto fa sentire tutta la sua tempra balcanica.
Curiosiamo tra i progetti che il don intende realizzare a Mostar e lui ci spiega: “Stiamo costruendo una chiesa per il quartiere, vogliamo realizzare anche degli spazi in cui la comunità si possa ritrovare e incontrarsi”. L’opera è ambiziosa, quasi epica. Quello che ha in mente l’uomo che ci ha accolto non è solo un luogo di culto, ma un centro che possa dare impulso alla vita comune delle persone. “Qui stiamo costruendo un anfiteatro” dice il prete indicando uno spazio al piano sottostante. “Questa invece sarà una cucina, lì ci saranno anche delle docce, mentre qua fuori penso di creare uno spazio esterno dove le persone dopo la messa possano fermarsi per conoscersi, parlarsi e confrontarsi. Se non c’è uno spazio in cui trovarsi come può esistere una comunità?” spiega il don. Ma la strada per vedere ultimato il progetto è ancora lunga, i soldi sono pochi e i problemi da risolvere sono molti: “Procediamo un passo alla volta” dice l’uomo.
L’obiettivo principale sembra quello di aiutare i giovani ad avere un futuro in Bosnia. “Molti se ne vanno da qui, il lavoro non c’è e le prospettive non sono delle migliori. Qualche settimana fa ha chiuso un’azienda importante per la zona, ci lavoravano 900 persone – racconta il prete – il lavoro è poco, la gente spera sempre di trovare un impiego statale, la paga non è alta, ma almeno lo stipendio a fine mese è garantito”. Così chi può se ne va da Mostar e dalla Bosnia e chi è costretto resta.
Ma la guerra passata non ha lasciato solo un paese che fatica a risorgere dalle proprie ceneri. La comunità internazionale, intervenuta con colpevole ritardo per mettere fine al conflitto che si è consumato nei primi anni ’90, continua a dimostrare di non essere in grado di affrontare con decisione la questione bosniaca. La divisione sociale (a Mostar convivono musulmani, cattolici e una piccola minoranza di ortodossi), che in realtà sembra più dettata da motivi economici e politici che da fattori culturali, è ancora presente. “Sono dieci anni che a Mostar non si vota per eleggere il sindaco – racconta il don – il rappresentante dell’area cattolica in parlamento è in realtà un fantoccio e la comunità internazionale se ne sta a guardare”. Assenza di politiche di sviluppo, diverse comunità che faticano a trovare un punto di incontro e una corruzione dilagante: è questo il panorama politico e sociale che ci viene disegnato. Quando facciamo notare che però il centro di Mostar è fiorente e colmo di turisti il don a sua volta ci fa notare che “l’economia del turismo è gestita quasi del tutto dalla comunità musulmana”. Un’affermazione che fa riflettere su come a dividere le persone, a Mostar come nel resto del mondo, non siano le differenze religiose, o almeno non solo, ma più che altro il denaro, il potere, la conquista sociale e l’economia.
Troppo pochi i giorni passati a Mostar per poter dire di conoscere a fondo la città, ma pensiamo di aver raccolto una testimonianza importante: quella di un prete di frontiera che da anni vive il territorio e si impegna per costruire una comunità e darle un futuro. Un racconto prezioso quello che abbiamo ricevuto per comprendere meglio come, nonostante il conflitto sia finito da oltre due decenni, le divisioni interne permangono. Lo scontro violento è ormai parte del passato, ma tante sono le questioni sociali irrisolte che mescolate a una difficile situazione economica rischiano di far riaffiorare vecchi dissapori e, speriamo di sbagliarci, un giorno potrebbero anche riaccendere la polveriera.