SCRIVE ANGELO PARATICO – L’Italia dichiarò guerra al Giappone il 15 luglio 1945. Il Giappone s’arrese un mese dopo, il 14 agosto. Dunque, la nostra fu una guerra lampo. Per capire le ragioni di questo atto ostile, alla Maramaldo, nei confronti del nostro ex alleato, bisogna risalire alle lunghe trattative diplomatiche avvenute a Washington, per ottenere l’uscita dell’Italia dallo stato armistiziale e il suo passaggio fra le Nazioni Unite.
Eppure, all’atto della nostra dichiarazione di guerra, non era così scontata una rapida risoluzione di quel conflitto e il rischio che l’Italia dovesse contribuire in termini di materiali e di sangue, era elevato. I giapponesi stavano armando anche i vecchi e le donne per respingere un’invasione. Le stime dell’alto comando statunitense davano cifre paurose di caduti. Si parlava di un milione di morti fra gli Alleati e, inevitabilmente, anche l’Italia avrebbe dovuto dare il proprio contributo. La nostra entrata in guerra contro al Giappone fu, alla fine, ritardata da tre fattori: le incertezze britanniche, l’ostilità russa e i nostri governanti che, saggiamente, non mostravano alcuna fretta nel gettarsi in un nuovo conflitto, con l’Italia in ginocchio e affamata.
Le bombe atomiche non erano ancora esplose e, soprattutto, non era stata calata sul tavolo la carta risolutiva: la dichiarazione di guerra dell’Unione Sovietica, temutissima dai generali nipponici. Eppure, una resa giapponese la si sarebbe potuta ottenere facilmente, a partire dall’aprile 1945. Sarebbe bastato offrire l’immunità all’imperatore, come poi fecero, dopo quelle due inutili e orrende bombe atomiche.
Il principale architetto della nostra entrata in guerra contro al Giappone fu il nostro ambasciatore a Washington, Alberto Tarchiani (1885-1964). Egli racconta questi suoi sforzi in un suo libro di memorie, intitolato “Dieci Anni. Tra Roma e Washington” uscito nel 1955.
Alberto Tarchiani fu corrispondente estero e interventista nella Prima guerra mondiale. Poi fu antifascista intransigente e, nel 1925, lasciò l’Italia per andare a Parigi, unendosi a Salvemini e ad altri dissidenti. Litigò con Rosselli e nel 1940, quando i nazisti giunsero a Parigi, fuggì prima a Londra con Pacciardi, unendosi a Carlo Sforza e poi negli Stati Uniti. Nel 1943 tornò nel Sud Italia e dopo aver condotto in salvo, a Capri, Benedetto Croce, seguì lo sbarco di Anzio, intenzionato a unirsi alla lotta partigiana.
Il 22 aprile 1944 fu nominato ministro dei Lavori Pubblici nel secondo governo Badoglio, per poi essere nominato commissario straordinario del Crediop (Consorzio di credito per le opere pubbliche). Nel febbraio 1945, il presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi e il ministro degli Esteri, Alcide De Gasperi, lo nominarono ambasciatore a Washington, ove rimase sino al gennaio del 1955. Parlava bene l’inglese, dato che era stato corrispondente dagli Stati Uniti e vi godeva di grande prestigio.
L’idea della nostra dichiarazione di guerra al Giappone pare sia stata una sua idea, volta a ingraziarsi i favori degli Alleati, in relazione agli aiuti economici di cui avevamo necessità, per difendere Trieste dalle mire titine e per la nostra entrata nelle Nazioni Unite, che stavano prendendo forma, con la Conferenza di San Francisco.
Non a caso, il primo colloquio ufficiale di Tarchiani, a Washington, fu con il sottosegretario di Stato Joseph Grew, ex ambasciatore a Tokyo prima e al momento della guerra. Qualche giorno dopo vide Clement Dunn, al Dipartimento di Stato e in seguito ambasciatore a Roma, e qui gli accennò della possibilità dell’entrata in guerra contro al Giappone. Dunn gli disse: “L’idea è ottima, ma va studiata nei riguardi delle ripercussioni internazionali” già pensava alle obiezioni britanniche, che ci volevano mantenere in uno stato di soggezione.
Due giorni dopo Tarchiani incontrò il presidente Roosevelt, e di nuovo accennò alla guerra al Giappone. Racconta che Roosevelt si dimostrò gradevolmente sorpreso e disse che non ci aveva mai pensato. Aggiunse che non era un esperto di “giure internazionale” ma che l’Italia poteva fare ciò che voleva e che Tarchiani ne parlasse con Stettinius. Il presidente lo lasciò con un: “Spero di rivederla presto.” Ma quaranta giorni dopo era morto. Tarchiani vide il sottosegretario di Stato, Edward Stettinius, che fu ben impressionato dalla sua idea di dichiarare guerra al Giappone, prima della caduta di Hitler, ma subito dopo fu destituito dal presidente Truman e sostituito con Byrnes.
Tarchiani accennò del suo progetto anche all’ambasciatore sovietico, Gromyko, il quale gli rise in faccia e, inoltre, s’oppose alla nostra partecipazione alla conferenza di San Francisco per la fondazione delle Nazioni Unite e, per finire, gli disse che Trieste sarebbe stata Jugoslava.
Il 16 giugno 1945 il sottosegretario di Stato, Grew, recapitò al nostro ambasciatore una nota ufficiale da trasmettere a Roma nella quale si specificava come una nostra entrata in guerra sarebbe stata accolta con favore dagli Stati Uniti. Da Roma non arrivò alcuna risposta e Truman stava partendo per la conferenza di Potsdam. Il 23 giugno De Gasperi telegrafò, sottolineando di non aver ricevuto alcuna conferma da Londra. Poi chiese se il nostro gesto avrebbe potuto attenuare l’ostilità britannica nei nostri confronti, perché se gli inglesi ci avessero imposto una dura pace, l’opinione pubblica italiana non avrebbe capito il nostro andare a far la guerra a un nostro ex alleato.
Tarchiani ne parlò alle autorità americane. Gli dissero che certi elementi nel Foreign Office, a Londra, stavano ancora ancorati al passato e remavano contro, ma consigliavano di sbrigarsi comunque, perché i tre grandi a Potsdam stavano per decidere il nostro destino e i nostri confini. Il 4 luglio De Gasperi telegrafò che Togliatti e Nenni sollevavano obiezioni procedurali, temendo che i termini del nostro armistizio non ci permettessero questa azione. Parri, Brosio e Ruini, invece, erano del parere di dichiarare guerra e poi decidere se effettivamente partecipare.
Pressato, De Gasperi mandò un telegramma nel quale scriveva di comunicare a Truman che “in via confidenziale e preliminare il Governo italiano è di massima favorevole a dichiarare guerra al Giappone”. Il 12 luglio, Tarchiani venne a sapere che a Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945) la Russia avrebbe discusso di un proprio intervento bellico contro al Giappone e trasmise questa confidenza a Roma. Fu questo che ci fece rompere gli ultimi indugi. Il giorno dopo gli telegrafarono, dicendo che avevano pregato il ministro degli esteri svedese di comunicare a Tokyo la nostra decisione, ovvero che dal 15 luglio sarebbero iniziate le ostilità nei loro confronti. Tarchiani s’affrettò a informare Grew della nostra decisione, rivelando le clausole decise dal nostro governo per giungere a una giusta pace. Poi gli chiese di trasmettere a Potsdam la nostra decisione e che, dunque, non infierissero sull’Italia.
L’8 agosto, due giorni dopo Hiroshima, l’Unione Sovietica dichiarò guerra al Giappone, e il 14 agosto il Giappone s’arrese. Quando alla Conferenza di Pace di Parigi cercammo di far notare la nostra partecipazione al conflitto nel Pacifico, quale nostro titolo di merito, il ministro sovietico Molotov s’oppose con veemenza e poi irrise la nostra pretesa di fregiarci di medaglie per una guerra che non avevamo combattuta.
Angelo Pratico