Il pensiero espresso da Papa Francesco nell’enciclica “Laudato si’” si coglie e si sviluppa alla luce della emergenza sanitaria mondiale creatasi con la pandemia covid19. Il Papa, nei giorni più cupi della pestilenza, ha parlato di illusione umana di rimanere sani in un mondo malato.
Arriva a chiedersi quanto sia necessario e utile mantenere un modello di vita che non permette di rispettare l’equilibrio della natura come fattore di equilibrio della vita umana.
Sabato 16 maggio 2020, nell’imminenza del centenario della nascita di papa San Giovanni Paolo secondo, durante la messa a Santa Marta, si domandava: “Qual è lo spirito del mondo? Cosa è questa mondanità, capace di odiare, di distruggere Gesù e i suoi discepoli, anzi di corromperli e di corrompere la Chiesa?”. Secondo Francesco “la mondanità è una cultura: cultura dell’effimero, cultura dell’apparire, del maquillage che ha dei valori superficiali. Una cultura che non conosce fedeltà, perché cambia secondo le circostanze, negozia tutto”.
Il 12 settembre il Papa ha parlato di ecologia e di equità: non c’è ecologia se non c’è equità e non c’è equità se non c’è sviluppo compatibile con l’ambiente.
La questione ambientale non è dunque solamente una questione ecologica, ma è una questione sociale vera e propria (come d’altronde l’enciclica “Laudato si’ “ è una enciclica sociale).
La questione ambientale cala in un mondo che si trova in una situazione di precario equilibrio sociale, geopolitico, culturale. In campo economico il precario equilibrio fra gli stati contraddistingue un mondo basato sulla economia di debito: con una ricchezza globale di 360mila miliardi di dollari, ma un indebitamento di 253mila (tre volte e mezzo il PIL globale) e una massa di titoli derivati di quasi 800mila miliardi, dieci volte il Prodotto interno lordo. Uno stato di precarietà generale ed un condizionamento finanziario della politica che finiscono per incidere decisamente sull’azione dei vari governi.
Il 4 settembre, nel primo messaggio mai rivolto da un Sommo Pontefice ai partecipanti all’annuale Forum Ambrosetti di Cernobbio, Papa Bergoglio ha invitato la business community a “vivere una conversione ecologica, per poter rallentare un ritmo disumano di consumo e di produzione, per imparare a comprendere e a contemplare la natura, a riconnetterci con il nostro ambiente reale.”
Papa Francesco, (nella “Laudato si’) non ritiene che l’integrità dell’ambiente naturale sia in antitesi con l’economia e con lo sviluppo economico (come sembra romanticamente sostenere il filosofo esistenzialista italo-tedesco Romano Guardini nelle Lettere dal lago di Como. Briefe vom Comer See del 1953: in cui esprime il dilemma esistenziale tra bellezza e progresso. “La bellezza viene sradicata, travolta dal progresso”).
Il Papa sostiene viceversa che essa debba conseguirsi nell’equilibrio della società e della economia. La tesi francescana non approda ad una posizione aprioristica di tutela estetica della natura e dell’ambiente, ma muove sulla linea etica di una tutela funzionale alla vita umana. Bello e buono è ciò che è vero; in contrasto con il pensiero romantico che considera vero ciò che è bello.
Bellezza dà un senso di benessere al corpo e allo spirito. Il brutto, il disordinato lascia insoddisfazione e un senso di oppressione nello spirito. Un principio di sapienza antica, già presente nel pensiero greco: kalòs kai agathòs. In tutto il pensiero francescano, da San Francesco a Papa Bergoglio, la bellezza è fonte di bene e di ristoro per il corpo e per l’anima. La bellezza è salute del corpo e dell’anima.
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SUL FRONTE ECOLOGICO
L’Unione europea (a differenza di una serie di stati che non rispettano regole antipollution) coltiva l’idea di un green deal, un processo, imperniato sulla decarbonizzazione, che dovrebbe portare alla neutralità climatica dell’Europa entro il 2050, con ciò intendendo assumere il ruolo di protagonista e non di semplice figurante nel panorama degli attori mondiali impegnati su questo fronte. Nel 2020 la Commissione ha varato, tra l’altro, un piano di grandi investimenti per il programma volto alla massimizzazione del potenziale di efficienza energetica del parco immobiliare dell’UE con interventi massivi di rigenerazione urbana ed un progetto basato sulla biodiversità e sull’idea virtuosa nella catena agroalimentare, della circolarità “dal produttore al consumatore”.
Ma in Italia, la combinazione dei meccanismi della policy europea sul green deal con le dispersive politiche di assistenzialismo (sostegno sociale) praticate dal nostro Paese ha portato ad una grande dispersione di risorse, rispetto agli obiettivi da perseguire.
L’ Europa va per la sua strada. L’Italia arranca e non riesce a stare al passo. Sostenuta, propiziata e pungolata dagli interessi di tutta la potente filiera della green economy – l’ U.E. di scadenza in scadenza continua imperterrita ad alzare l’asticella degli obiettivi senza preoccuparsi che siano stati raggiunti quelli già prefissati: così sta avvenendo per quelli del 2020.
Ma va detto che in campo ambientale ed energetico l’Italia, nel solco della policy europea persegue una politica da economia ricca. Distribuiamo, distribuiamo nell’illusione che qualcosa alla fine si ottenga. Ma siamo in buonafede? Le briciole che cadono dalla mensa del ricco Epulone non riescono nemmeno ad alleviare minimamente la “fame del povero” che sta alla porta.
La politica green del nostro paese sembra ispirata all’esigenza di assecondare l’Europa nelle sue linee direttive generali in materia, più che mirata ad intervenire puntualmente ed efficacemente per risolvere gli specifici problemi dei diversi settori. Si consideri, ad esempio, la promozione generalizzata di sostituzioni di serramenti e di cappotti termici anche in zone climatiche, o il favor verso il fotovoltaico domestico, piuttosto che l’incentivazione di interventi volti ad eliminare radicalmente le dispersioni idriche degli acquedotti del sud o le infrastrutture di teleriscaldamento nelle città del nord o le grandi reti di trasporto ferroviario, pur rientranti nei piani dell’Unione (quali il corridoio 24), che hanno una forte valenza in termini di decongestionamento e di disinquinamento dell’ambiente.
Certo è più facile muoversi politicamente come si sta facendo, piuttosto che impostare programmi e piani complessi . E poi questa modus procedendi, permette allo stato di distribuire risorse finanziarie con il metodo dell’ helicopter drop e quindi di mostrare efficienza governativa e di accontentare grandi masse di elettori, conquistando consenso politico.
Ma c’è un concetto che deve essere sottolineato in modo chiaro: primo baluardo per la tutela della natura e dell’ambiente come persona e come società (insieme di persone consociate a livello istituzionale) non è il pubblico potere in sé, inteso come stato o come pubblica amministrazione. Questi, in linea di logica e di fattualità vengono dopo.
Se l’uomo è lasciato allo sbaraglio, e si sente solo e non protetto dallo stato, l’ultimo pensiero che ha è quello di rispettare e tutelare la natura.
Con ciò voglio dire che la questione ecologica è anche questione culturale e socio-economica. Perché, se è vero ( ed è l’insegnamento che dobbiamo trarre dalla “laudato sì”) che non ci può essere uomo sano in una natura malata, è altrettanto vero il reciproco: che non ci può essere una natura sana in un mondo sociale ammalato (di edonismo, di individualismo/egoismo, di relativismo).
Nel cap. III dell’Enciclica il Papa parla di ecologia integrale (un risultato sul piano sia naturale, sia sociale). E’questa la chiave di lettura dell’intera enciclica. Una ecologia, tanto culturale, quanto sociale, che deve condurre all’armonia di tutto il creato (nel senso logico-matematico e pitagorico del termine, prima ancora che cristiano (1)).
Il terzo passaggio nel pensiero del Papa è rappresentato nell’enciclica “Fratelli tutti” del 3 ottobre scorso che propone l’armonia della fratellanza in Cristo.
Questo insegnamento, declinato nel caso Italia, significa che vanno decisamente combattuti i mali endemici che affliggono il nostro Paese.
E dunque si impone una rigenerazione radicale della nostra vita sociale e politica, sola via per realizzare quella ricostituzione delle energie del Paese che è un passaggio ineludibile nella nuova normalità che ci si prospetta innanzi.
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SUL FRONTE SOCIALE
Credo si possa concordare con chi paragona la pandemia ad una guerra, con la differenza che la prima lascia sì intatte le cose – sempre mietendo vittime umane – ma distrugge i valori e i rapporti economici. Danni che apparentemente non si vedono, ma costituiscono un vero disastro. Le cose sono intatte, ma hanno perso valore.
Ogni dopoguerra è infestato di affaristi, speculatori pronti ad approfittare delle disgrazie altrui; non solo, ma lo stesso stato di emergenza e di necessità porta con sé un generale affievolimento del senso della cogenza delle norme.
C‘è chi prevede che nei prossimi mesi si possa aprire una fase di economia sommersa di sopravvivenza fatta di contante dalla provenienza dubbia, di evasione fiscale, di lavoro nero, di criminalità organizzata di ogni dimensione. Un cocktail micidiale che avvelenerebbe le imprese che lavorano rispettando la legge, incapaci di reggere la concorrenza degli affaristi senza scrupoli.
Il problema è legato peraltro alle disfunzioni strutturali italiane di cui alcuni approfittano: evasione fiscale, denaro facile, lavoro nero, criminalità organizzata, criminalità finanziaria, sprechi pubblici, elefantiasi e inefficienza della burocrazia, corruttela nei rapporti burocratici, clientelismo, una pratica che risale a Cicerone e ad ancor prima.
Tra i grandi mali del nostro Paese, ce n’è uno che non viene quasi mai citato. Riguarda il mondo imprenditoriale e del lavoro autonomo – artigianale, commerciale, professionale – e crea disaffezione, difficoltà operative e margini di disuguaglianze economiche: è rappresentato dall’area della disparità delle condizioni concorrenziali nell’esercizio delle attività economiche.
Il problema si riscontra in modo sensibile anche in rapporto alla nazionalità del titolare delle singole attività e risiede in una certa mentalità, in un certo costume assai diffusi, per cui al cittadino italiano si riservano forche caudine, tanto nel campo pubblico quanto nel privato, mentre allo straniero si fanno ponti d’oro: xenofilia, per inclinazione o per necessità? Un dramma, per il nostro Paese, dalla mentalità vassalla.
Se per troppi anni la politica si è legata a doppio filo al consenso di breve periodo previsto dai sondaggi, oggi siamo all’ultimo appello: urge offrire alle generazioni nuove, che sono le più deboli, istruzione, crescita professionale, lavoro. E non dar in cambio la movida perché i giovani, ubriachi di notte, non marcino di giorno reclamando il sacrosanto diritto al futuro.
Per ottenere il risultato serve un’azione di governo decisa e incisiva. Ma, da dove cominciare?
Occorre risanare alla radice il sistema sul quale si basa il nostro assetto sociale. E per farlo c’è un passaggio obbligato da compiersi: intervenire sulla parte pubblica della nostra economia, che è preponderante, rappresentando il 51% del totale, e sulla burocrazia, che è l’ossatura portante del Paese. Lo denunciava già Benedetto Croce nella sua Storia del Regno di Napoli.
La burocrazia deve essere maggiormente efficiente, in altri termini deve produrre di più – altro che smart working, per stare a casa più comodamente – e deve impegnarsi maggiormente nella lotta ai mali endemici del Paese, acquisendo una maggiore coscienza del proprio ruolo. Va combattuta la cultura del posto fisso pubblico, come approdo sicuro e scevro di responsabilità. Oggi si risponde solo sul piano penale, non per inefficienza o demerito e solo in minima parte per danni a terzi. Per questo occorre creare nella burocrazia una cultura della responsabilità e un maggior senso dello Stato, che è un concetto semplice: la cosa comune non va considerata res nullius, bensì cosa propria. La rigenerazione della società parte sì dai giovani, ma per arrivare a cambiare la loro mentalità, rendendoli più responsabili del futuro e dunque maggiormente impegnati, si deve iniziare dalla testa del corpo sociale e non dalle dita dei piedi.
Ma la burocrazia tiene in pugno la politica? Certamente sì… Questo processo presuppone quindi un rinnovamento qualitativo della classe politica. Il politico deve essere credibile, e per esserlo deve dimostrarsi competente ed affidabile, ed essersi guadagnati i galloni sul campo, non averli acquisiti per investitura. Ma ancor prima ci vuole un impegno civile di uomini di buon senso e di buona volontà. E maggior coraggio e generosità.