Osservando le opere di Andrea Polenghi attualmente in mostra al Palazzo Cicogna di Busto Arsizio si può avere un’idea di quella che può essere una strada che l’arte e la tecnica prendono nella realtà contemporanea.
Dal punto di vista artistico a determinare il momento in cui l’opera può dirsi compiuta è la sintonia che Andrea ha con lo sguardo del soggetto ritratto.
La genesi di queste opere si ha in un momento duro della vita di Andrea che con la legge Fornero rientrò nella folta schiera di coloro i quali furono definiti esodati, dunque ci si trova nel limbo a passeggiare per strada ma non per tutti la vita è così. C’è chi ha fatto notte tarda con un coktail in mano e ne ha poi buttato bicchiere e cannucce in strada. Lui, l’esodato, passeggia carico di pensieri e di ansie, dà un calcio a questo cumulo e con la sua formazione in culture orientali da quel caos, da quella decadenza, in quell’assenza di senso trova l’ordine, un ordine spirituale delle cose che almeno nell’arte deve esserci.
Così inizia a infilare le cannucce una dietro l’altra con l’occhio di chi per anni è stato un pubblicitario e con l’abilità di chi da adolescente, finito il liceo, realizzava imitazioni di quadri secenteschi per venderle procurandosi così i mezzi per concedersi qualche libertà in più.
Apparentemente il gioco è semplice, ogni cannuccia è un pixel, ma cosa distingue le opere di Andrea dalla semplicità e dall’immediatezza della fotografia digitale? E’ proprio quella tecnica, che nell’arte contemporanea diventa una procedura personale e distintiva che finisce per collegare più di ogni altra componente l’opera all’autore.
Le cannucce vanno tagliate una ad una, ce ne vogliono migliaia per ogni opera. Lì l’artista si genuflette all’artigiano, la brama creativa deve aspettare, ci vogliono rigore, silenzio, calma e pazienza, oltre a un pizzico di lucida follia.
Così Andrea infila le cannucce una ad una cercando di neutralizzare il campo magnetico che si genera nel manipolarle e che rende il lavoro complicato, visto che quando le cannucce si polarizzano finiscono per unirsi le une alle altre come se fossero incollate tra di loro.
Eppure una dopo l’altra le cannucce vanno al loro posto, senza colla, tenute insieme da un delicato equilibrio. Vengono chiuse in una teca di plexiglass solo per proteggerle dalla curiosità di un pubblico che ha brama di toccare, senza capire che a volte la soluzione a molti problemi nonché la chiave dell’arte risiede proprio nella dimensione eterea e nel giusto distacco, nel vedere le cose da lontano, senza fretta, magari passeggiando nella mostra, spostandosi davanti alla singola opera per vederla cambiare. Da certe angolazioni la fitta foresta di cannucce orizzontali si lascia attraversare mostrando la parete retrostante, per un attimo la coltre di pensieri svanisce e al di là di essa si apre un momento di serenità.
Dal punto di vista materiale all’interno di queste scatole di plexiglass c’è un grande spazio vuoto recintato dal sottile contorno delle cannucce che i bambini sono i primi a riconoscere. Quelle di Andrea sono opere raffinate che rimandano alla sua passione per gli origami e che si collegano in maniera diretta alla sottile ricerca stilistica di Piero Manzoni, Lucio Fontana e Agostino Bonalumi.