In ordine alla vexata quaestio dell’affissione del crocifisso nelle sedi pubbliche, e, in particolare, scolastiche, il procedimento radicato da ultimo davanti alla Suprema Corte di Cassazione è finalmente giunto a termine (Cass., SS.UU., n. 24414, 09.09.21).
Sul tema è dunque utile, anzitutto, riesumare la fattispecie e l’iter procedimentale che ne è scaturito, così da riassumere poi il contenuto della decisione.
IL CASO. La vicenda, del 2008, originava dalla decisione degli studenti della classe III A di un istituto professionale di Terni che, riuniti in assemblea, decidevano di affiggere il crocifisso nell’aula scolastica. A tale affissione si opponeva il docente di lettere, il quale, all’inizio di ogni sua ora, rimuoveva il crocifisso dalla parete per poi ivi riporlo al termine della stessa. Seguiva una circolare del dirigente scolastico con cui si invitavano tutti i docenti ad adeguarsi alla volontà degli alunni, ma a tale disposizione non ottemperava il docente, il quale non solo reiterava tale suo comportamento, ma, in altra occasione, non mancava di muovere epiteti sconvenienti nei confronti del dirigente scolastico promotore della circolare. Sicché non tardava il provvedimento disciplinare verso il professore, con irrogazione della sospensione di giorni trenta dall’attività lavorativa.
IL PROCEDIMENTO. A questo punto l’insegnante impugnava la circolare e il provvedimento disciplinare d’innanzi al Tribunale di Perugia, ove con sentenza si respingeva ogni sua pretesa. Costui proponeva appello davanti alla Corte di Appello di Perugia, che del pari rigettava le sue pretese. E così, non rassegnato, costui ricorreva in ultima istanza alla Suprema Corte di Cassazione, ove il caso veniva rimesso alle Sezioni Unite della Corte prospettandosi una “questione di massima e particolare rilevanza”.
IL DIRITTO. In termini di diritto occorre premettere che è ancora oggi vigente un dettato normativo assai risalente: il regolamento di cui all’art. 118 del Regio Decreto n. 965 del 1924. Trattasi di una norma descrittiva dell’arredo scolastico e che prevede che ogni istituto esponga «la bandiera nazionale» e ogni aula «l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re». Norma, sì, chiaramente anacronistica (giacché pubblicata in un clima confessionale come quello pre-costituzionale), ma, di fatto, ancora vigente. La Suprema Corte, però, afferma anzitutto la disapplicazione di tale disposizione, dovendosi reinterpretare tale norma alla luce del principio di laicità dello Stato e dei principi religiosi e di uguaglianza che innervano la carta costituzionale. Di conseguenza, oggi come oggi deve scorgersi un quadro normativo di fatto privo di obblighi in tal senso. E in assenza di obblighi – spiega la Corte di Cassazione – v’è libertà di azione ed è possibile interrogarsi circa la presenza o meno, semmai, di un obbligo contrario, ossia quello di non affissione di simboli religiosi in contesti pubblici, sulla scorta dei medesimi principi di equidistanza e di laicità dello Stato. Ebbene, anche in questo secondo caso, però – espone la Corte – il responso è da ritenersi negativo in quanto, a ben vedere, sono proprio gli stessi principi costituzionali citati a imporre all’ente pubblico di non “neutralizzare” il tema religioso quale espressione di coscienza e pensiero in forza di uno sterile appiglio all’equidistanza della figura pubblica dalle confessioni religiose. Difatti, il principio di laicità non ha il fine di appiattire le diversità, ma, al contrario, mira a esaltarle all’interno di un contesto sociale di convivenza, coesistenza, e, quindi, tolleranza.
Per l’effetto, in assenza di obblighi in un senso e nell’altro, la decisione degli ermellini ha rinunciato, di fatto, alla rigidità di una regola ‘valida per tutti’, sostituendola con un criterio elastico, un principio di massima, che a seconda del caso specifico è in grado di pervenire a soluzioni opposte, e che, quindi, fornisce a monte le chiavi di lettura per l’intera casistica.
La Suprema Corte, difatti, non ha sancito né l’obbligo della presenza in classe del crocifisso e né il divieto dell’ostensione dello stesso, ma ha posto, semmai, un unico e categorico divieto: quello di imporre una ideologia piuttosto che un’altra, senza scendere a compromessi e mostrarsi disponibili, dunque, a una soluzione mite. Non è stata negata, cioè, l’esistenza di diritti e interessi contrastanti, ma, in base all’oggetto della richiesta e a ogni carattere distintivo della fattispecie concreta, sarà onere e onore degli schieramenti quello di inquadrare una soluzione condivisa in termini di ragionevole accomodamento.
Per cui non potrà, da un lato, ammettersi l’imposizione dei più circa l’affissione o eliminazione di un simbolo di culto. Così come all’opposto, però, il veto tassativo del singolo non sarà sufficiente a limitare il fabbisogno espressivo e identitario di altri soggetti, specie se in fase di apprendimento e formazione della propria persona come gli adolescenti.
In tutti questi casi, quindi, le parti saranno tenute a trovare una soluzione conciliativa, quali a esempio un’affissione temporanea del simbolo, o su parete distinta, o in un luogo distinto, o, ancora, attraverso la programmazione a contraltare di un approfondimento scolastico sul tema della laicità, etc. Perché “L’accomodamento ragionevole” – riferisce la Magistratura – è espressione stessa del principio di laicità, e in un ambito come quello scolastico “favorisce, insieme al raggiungimento di soluzioni concrete più eque, l’incontro e la creazione di un clima di mutuo rispetto, di condivisione e di comune appartenenza”.
LA DECISIONE. Così, nel caso specifico, i Giudici romani non hanno potuto negare o non considerare l’irritazione e il disappunto del docente nel vedere apposta accanto alla propria figura, al momento dell’atto educativo, un simbolo a connotazione religiosa, ma non per questo hanno giustificato la sua rigida presa di posizione e la rimozione in autotutela del simbolo, considerando fra l’altro:
- la funzione meramente passiva dell’oggetto di arredo;
- la conseguente assenza di caratteri di indottrinamento o proselitismo;
- la funzione storica, culturale e ideologica dello stesso, oltretutto anche rappresentativo di principi di valore morale e giuridico socialmente condivisi;
- la presenza di elementi di fatto quali l’assenza, in quella scuola, di lezioni di cattolicesimo e, anzi, la presenza di lezioni a carattere prettamente laico e illustrativo delle diverse religioni;
- l’esigenza di maggior tutela di soggetti in fase educativa e di formazione della propria entità, rispetto a quella del docente;
- nonché, soprattutto, l’espressione di una volontà inequivoca degli studenti riuniti in assemblea nel richiedere l’affissione dell’emblema religioso.
Per queste ragioni, nel caso concreto è stata ritenuta indebita la condotta intransigente del docente.
Del pari, però – e per le medesime ragioni – è stata ritenuta illegittima anche la circolare del dirigente scolastico, il quale, preso atto della decisione assembleare degli studenti della III A, non si è posto quale arbitro imparziale e indirizzato a una reasonable accomodation, ma, al contrario, si è limitato a imporre al docente il volere di costoro, di fatto commettendo un errore di ugual fatta.
Di conseguenza, i provvedimenti dirigenziali sono stati ritenuti inapplicabili, mentre per il resto la questione è stata rinviata alla Corte di Appello di Perugia affinché valuti altra precipua sanzione disciplinare con riferimento agli insulti del docente nei confronti del dirigente che, in ogni caso, riguardano altro tema e non potevano certo trascurarsi.