Sul blog di Dino Messina del ‘Corriere della Sera’ il nostro Angelo Paratico ha pubblicato – il 14 marzo – il seguente articolo nella rubrica ‘La nostra Storia’:
La EDT di Torino è una casa editrice molto raffinata, nel cui catalogo figura il meglio del mondo dell’Opera lirica. Il loro ultimo libro s’intitola “Domenico Barbaja. Il padrino del Belcanto”. L’autore è Philip Eisenbeiss, tedesco e proprietario di un’agenzia di selezione del personale specializzata nella finanza; laureato in Storia delle Relazioni Internazionali alla Columbia University di New York, da vent’anni risiede a Hong Kong. Il contrasto fra la passione per la lirica di Eisenbeiss e il suo lavoro nella super tecnologica Hong Kong è davvero stridente, ma serve a ricordarci che ‘non di solo pane vive l’uomo’.
Come per Stendhal, il suo fu un colpo di fulmine allorché, ancor giovane, fu portato dai genitori ad assistere a un’opera italiana. Ebbe un’illuminazione, una catarsi e, da quel giorno, questo suo amore è stato la stella polare della sua esistenza. La tradizione di studiosi tedeschi che scoprono documenti e personaggi italiani da noi dimenticati non è nuova e trova qui una riconferma. Me ne accorsi studiando Leonardo Da Vinci, dove alcune scoperte biografiche chiave sul genio rinascimentale sono state fatte da storici germanici. Philip Eisenbeiss fu colpito dalla mancanza di documenti e di informazioni riguardanti Domenico Barbaja (1777-1841) uno dei massimi impresari lirici mai esistiti e questa carenza si trasformò in un’ossessione, in un vuoto che egli doveva colmare (la teutonica necessità di mettere le cose in ordine!). Il libro del quale stiamo oggi parlando è appunto il frutto ultimo della sua ossessione, che lo ha portato a rovistare in archivi; a riscoprire un ritratto del Barbaja, coperto di polvere al Museo della Scala; a compulsare libri in biblioteche dimenticate e a incontrare i discendenti del grande uomo, che risiedono a Napoli.
La cosa che mi ha colpito maggiormente leggendo questa biografia dedicata al Barbaja è stata la sua somiglianza con Silvio Berlusconi: sia per quanto riguarda l’aspetto fisico, che il luogo di nascita, l’intraprendenza, l’attenzione ai dettagli, la forte libido e la ricerca spasmodica del successo. Come scrisse Alessandro Dumas padre, che incontrò il Barbaja: “La sua testa era abbastanza comune e i suoi tratti non potevano vantare una grande regolarità; ma i suoi occhi sprizzavano spirito, intelligenza e malizia.” Più sbrigativo fu Gioacchino Rossini: “Il più calvo e cattivo dei direttori.” Ma i due avevano vari conti aperti, non solo relativi ai soldi: Rossini aveva soffiato al Barbaja la bella Isabella Colbran, sposandola. Domenico Barbaja nacque nel 1777 a Ponte Sesto, una frazione di Rozzano.
A 18 anni si trasferì a Milano, impiegato come garzone in un caffè vicino alla Scala e fu lì che inventò la ‘barbagliata’ un misto di caffè, panna e cioccolata, che certi vecchi caffè meneghini ancora offrono ai giorni nostri, ignorando l’origine del nome. Il Barbaja doveva essere uno che, come ancora si dice a Milano, non sapeva fare due più due, ma due lire più due lire, facevano sempre quattro lire. Cominciò a far soldi mettendosi in proprio, e oltre al caffè offriva ai clienti la possibilità di giocare d’azzardo, un vizio tollerato dai nuovi padroni francesi perché le tasse che il gioco generava erano indispensabili per finanziare le armate napoleoniche. Poi chiuse il caffè e si gettò a capofitto nel gioco d’azzardo, riuscendo a farsi dare delle concessioni esclusive. Barbaja era un grande comunicatore. Dotato di un’intelligenza vivissima egli si avvicinò alla musica lirica, la grande passione condivisa da tutti in quegli anni. La sua grande trovata, pur non originale, fu di capire che il massimo dei profitti lo si otteneva unendo la musica lirica con il gioco d’azzardo: infatti, fra un’opera e l’altra, i clienti si volevano svagare. Da Milano si trasferì a Napoli, ricchissima e aperta, e fu lì che costruì la sua imponente fortuna, stabilendo uffici e agenzie in tutta Europa. Dopo una carriera brillante si costruì un imponente palazzo a Ischia, dove raccolse tutte le sue opere d’arte e dove morì, nel 1841. Barbaja possedeva una grande capacità di scoprire nuovi talenti, sia vocali che musicali. Soleva infatti dire che: “Fra quei giovani, con pochi quattrini, trovo chi me ne farà guadagnare molti.”
Straordinario il fatto che dopo aver sentito un giovane appena uscito dal Conservatorio gli offrì un contratto: si chiamava Vincenzo Bellini. Amoreggiò con molte delle dive dell’epoca, come la Colbran, la Malibran, Giuditta Pasta, la Boccabadati, desiderate da tutti, come oggi lo sono le stelle del rock, ma fece sempre attenzione a separare la propria professione dalle passioni amorose. Barbaja fu, tutto sommato, un impasto inseparabile di genio, pur restando quasi analfabeta, di generosità e di rozzezza. La sua tomba è andata perduta e la sua favolosa collezione di quadri (possedeva anche un Tiziano) e di oggetti antichi fu dispersa dagli eredi: ci resta solo la sua vita, che è un’opera d’arte a se stante, ricostruita con grande passione da Philip Eisenbeiss, messa nel bel mezzo di quel variopinto affresco che fu quella Italia, uscita dalla tempesta napoleonica e che si avviata inesorabilmente verso l’unione.
Angelo Paratico