TURBIGO – Ne primi mesi del 1944 un Comando germanico si installò stabilmente a Turbigo con lo scopo precipuo di costruire, con manodopera locale, delle postazioni di difesa parallele al Ticino (Todt). Molto probabilmente i tedeschi erano già qui da mesi (vedere la storia del signor Gualtiero in nota) (1), ma fu solamente dopo la distruzione del ponte sul Ticino che iniziò una potente azione tesa a difendere questa passaggio cruciale. I tedeschi erano stati autorizzati a fare tutto quello che volevano. La Prefettura metteva a disposizione del Comune i fondi necessari a sostenere le spese per le requisizioni necessarie ad alloggiare le truppe, per il pagamento dei danni conseguenti e per tutto quanto era motivato da ragioni di guerra.
L’OCCUPAZIONE TEDESCA – C’era il progetto di realizzare un’estrema linea di difesa tedesca lungo il Ticino (una sorta di seconda linea gotica) per cui l’azione tedesca fu quella di precettare uomini e carri per realizzare, nei tempi più brevi, il progetto. Difatti nell’elenco delle spese sostenute durante il periodo dell’occupazione troviamo, ad esempio, la precettazione da parte del Comando Tedesco di dieci carrettieri impiegati nel trasporto di pali in legno. Molte furono le le case occupate in paese. Dai documenti conservati nell’Archivio Civico Comunale (Cartella 20-21, cat. VIII, Classe 5) risulta che i Tedeschi avevano occupato molte abitazioni in Turbigo: il Castello (è documentato da una richiesta di danni che il titolare della conceria Garavaglia fece nel 1946); l’ex convento degli Agostiniani Scalzi (casa Barozza-Vezzani) dove c’era la Mensa Ufficiali; villa di Mario Romorini, in via dei Frati, 5 dov’era stato installato un Ospedale da Campo e in tante altre abitazioni.
GLI INCONTRI CON FELICE COLOMBO E ANTONIO VESCOVO – Felice Colombo (classe 1914), allora membro dell’Associazione locale Combattenti e Reduci, il 4 novembre 1989 ci concesse un’intervista che in parte pubblicammo su Ticino mese e Contrade Nostre. Al tempo parlammo anche con Antonio Vescovo. Loro vissero in prima persona quei giorni e ci raccontarono i fatti che qui sotto pubblichiamo.
E’ Felice Colombo che parla: “L’8 settembre 1943 furono tolti i fucili dalle acque del Naviglio Grande dove erano stati posti, a valle della centrale idroelettrica. Li portammo a casa mia, in via Corte Nobile, dove furono smontati e revisionati e poi li consegnammo ad Angelo Spezia di Cuggiono. Gli uomini della brigata Gasparotto, presenti a Turbigo, erano: Felice Colombo (meccanico), Giuliano Vescovo; Carlo Milani (sindacalista, faceva parte della Commissione Interna del Cotonificio valle Ticino), Peppino Bani (lavorava con i tirafili tedeschi), Carlo Esena (dipendente A.T.M. portava in paese i volantini milanesi). Questi uomini, pur conoscendosi tra di loro in quanto paesani, durante gli anni della Lotta di Liberazione non sapevano di essere parte della stessa brigata partigiana. Fu solamente in seguito che avvenne questo riconoscimento”.
GENNAIO 1945 – La guerra era ferma alla linea gotica. In tutti i paesi la guerriglia si preparava ad esplodere. Preoccupazione, paura sospetto, rabbia, onore, pietà, speranza, occupavano gli animi. L’oscuramento avvolgeva i paesi. Gli esercizi pubblici chiudevano alle 21 e alle 22 scattava il coprifuoco. Silenzio nelle strade deserte. Solamente passi e voci di pattuglie si alternavano, il rombo di un motore.
Il Comando Tedesco continuava a requisire carbone dalla centrale termoelettrica (in data 21 novembre 1944 si erano già contati 500 quintali) per superare il durissimo inverno 1944/45. E pensare che i partigiani, durante questo inverno, andavano a dormire al Turbigaccio al freddo e al gelo.
I GIORNI DELLA LIBERAZIONE – Sempre con l’ausilio dei racconti dei due turbighesi (Felice Colombo e Antonio Vescovo) ricostruiamo i giorni della Liberazione.
“Al mattino del mercoledì 25 aprile 1945, alle ore 6, Antonio Vescovo e Felice Colombo, si trovavano in compagnia di alcuni partigiani della loro brigata per collaborare alla resa dei Tedeschi a Inveruno. Eseguita l’operazione, il comandante della brigata (Angelo Spezia) diede l’ordine di attivare la resa dei Tedeschi anche a Turbigo. Per questa ragione, verso le 13, fu organizzato un incontro a Turbigo con Amedeo Garavaglia (un partigiano di Bernate Ticino) e i partigiani turbighesi in via Villoresi, 6 (dove allora abitava Antonio Vescovo) nel quale si decise di informare Libero Pedranti ( un partigiano della prima ora che non aveva più partecipato al movimento di liberazione da quando era ritornato dalla deportazione) per chiedere la sua disponibilità ad un’azione congiunta per occupare il Municipio e concordare la resa coi Tedeschi”.
26 APRILE – “Alle 7 del 26 aprile Felice Colombo va alla ricerca di Libero Pedranti e lo incontra davanti al ‘Bureau’ (la salumeria che c’era davanti all’entrata dell’Asilo in via Matteotti) dove stava parlando con l’Ugo della ‘Gatta’. Felice Colombo lo informa che gli uomini della ‘Gasparotto’ intendevano occupare il Municipio e il Libero – verificata la forza degli uomini – disse che si sarebbe trovato all’ora stabilita davanti all’entrata del Comune (ma poi non si fece trovare).
Nella mattinata di giovedì 26 aprile fu messo in pista anche Mario Colombo (messo comunale) che i partigiani incaricarono di avvisare sia il commendatore Giuseppe Seratoni, sia Francesco Bianchini (soprannominato Caminòn) dell’iniziativa in corso. Successivamente, Felice Colombo, Carlo Milani e Carlo Esena si recarono dal segretario comunale Villa dal quale appresero che il 19 aprile precedente, Giovanni Colombo (della ‘Gatta’) era stato nominato Commissario Straordinario del Comune, ma non aveva mai effettivamente preso possesso della carica.
Fu avvisato anche lo Scavizzi della Drogheria (noto attivista del partito socialista) che partecipò all’occupazione insieme al Magiarin (Giuseppe Seratoni) di parte democristiana. Né il Pedranti, né il Bianchini, rappresentanti del partito comunista a livello locale, si presentarono per partecipare all’occupazione del Municipio.
Il 26 aprile 1945 venne dunque occupato il municipio nel quale si trovava, in qualità di Commissario Prefettizio, Giovanni Colombo, il segretario Villa, le signore Cavaiani (Bilosa), Colzani, la Baga della “Pesa”, la “Pirona” e al Mario Bidel. Alle 10 arrivò in paese con il figlio il partigiano Luigi Ronchi (ex tenente colonnello di artiglieria, fuggito dopo l’8 settembre ed abitante a Robecchetto con Induno) che avrebbe dovuto assumere il comando delle operazioni per la resa dei Tedeschi, anche per la sua conoscenza della lingua. Ronchi si presentò in divisa e gli abiti civili gli furono messi a disposizione dal segretario Villa.
La trattativa con i Tedeschi insediati a Turbigo iniziò verso le 11e si protrasse fino alle 18. Si svolse a quattr’occhi tra Ronchi e il maggiore Bulmann nella sede del Comando situato nell’ex convento degli Agostiniani Scalzi, allora casa di Giuseppino Seratoni (via Volta). I due si accordarono per la ritirata dei Tedeschi nel campo di aviazione di Lonate Pozzolo dove sarebbero rimasti fino all’arrivo degli Americani.
E’ la sera del 26 aprile 1945.
A mezzanotte l’ultima Topolino nera dei Tedeschi percorreva la via Fredda, girava a sinistra sulla via Matteotti per dirigersi verso il campo di aviazione di Lonate. Davanti c’erano quattro camion con le truppe: due si sarebbero diretti verso Nosate, gli altri due sulla strada molinara, verso Castano. Lì, all’altezza della cava Seratoni, dov’era il bivio per le due direzioni previste, i quattro camion incrociano la brigata Ravenna composta per la maggior parte di ‘repubblichini’. Questi ultimi manifestarono l’intenzione di seguire i Tedeschi all’aeroporto di Lonate, ma il maggiore Bulmann rifiutò l’ingombrante presenza per cui la brigata Ravenna dovette acquartierarsi nella cava Seratoni”.
27 APRILE – LA BRIGATA ‘RAVENNA’. Nel mattino del 27 aprile, di buon’ora, Felice Colombo stava rientrando a casa dopo una perlustrazione notturna (il palazzo De Cristoforis era stato abbandonato dai soldati dell’Aviazione, così come il Castello) quando incontrò due ragazzini spaventati, dall’apparente età di 14-15 anni, in divisa da repubblichini, ai quali chiese.
“Dove andate?”
“Andiamo in cerca di pane perché sono 4-5 giorni che non mangiamo”
“Ritornate indietro perché il paese è occupato dai partigiani! Farò in mondo di mandarvi un parlamentare”
Felice Colombo, ritornato in paese, contatta Antonio Vescovo e insieme si avviano verso la cava Seratoni. Lungo la strada incontrano Giorgio Seratoni col quale si recano dal comandante della brigata nera, Pietro Montanari. Insieme al comandante i tre turbighesi si accordano sui tempi e i modi della resa che il Montanari aveva condizionato alla presenza di un prete. Perciò il Vescovo, ritornato in paese, insieme a Felice Colombo e a Luigi Ronchi, si recano da monsignor Edoardo Riboni per chiedergli di fare il garante della resa. Vescovo e Ronchi, una volta esposta la questione al parroco di Turbigo, non videro quella disponibilità ad assumere la parte che gli era stata proposta su richiesta del comandante della Brigata Nera. Fu allora che Luigi Ronchi disse: “Se lei, signor curato non se la sente, vado a chiamare mio fratello che è il parroco di Robecchetto con Induno”!”
Questa frase fu sufficiente a smuovere tutte le perplessità del prete turbighese ed insieme scesero dalla scalinata della Rimembranza per avviarsi verso la cava. Vicino alla Camòna (il fruttivendolo che si trovava nell’area nell’ex circolo L. Bianchini, oggi rivenuto un palazzo residenziale) c’erano delle donne che – a conoscenza del fatto – scongiurarono il parroco di non proseguire. Con una battuta rimasta famosa, don Riboni disse: “Donne, non ho da preoccuparmi…sono insieme al Vescovo”, con un evidente riferimento alla persona che ricopre tale carica nella gerarchia religiosa.
A questo punto, mentre i due si dirigevano verso la cava Seratoni, il partigiano Ronchi si recava a Castano primo per dare l’allarme e prendere le precauzioni nel caso la brigata nera non si arrendesse. Strada facendo a monsignor Riboni e al Vescovo si unirono Giovanni Pedroli (allora ufficiale postale in paese), Vincenzo Bossetti, Luigi Baga, Carlo Milani. Intanto, Felice Colombo andò a sollecitare il montaggio della mitraglia che era stata recuperata da una autoblinda lasciata dai tedeschi all’Oratorio. Si misero a montare la mitraglia Pierino Pastori (detto Birèla, ex istruttore militare che non aveva aderito alla Repubblica di Salò) e Mazzucchelli. L’arma era stata poi portata alla villa Bonza nell’ipotesi che, se la brigata nera non si fosse arresa, avrebbe certamente cercato di prendere la strada per Milano (allora non esisteva la circonvallazione) e il passaggio obbligato sarebbe avvenuto in piazza S. Francesco.
A questo punto pubblichiamo una lettera di Vescovo Giuliano, datata 30 giugno 1983, motivata dalla pubblicazione, a cura dell’Amministrazione Comunale turbighese, del volumetto: 25 luglio 1943-2 giugno 1946 a Turbigo. Nello scritto che il Vescovo ci illustrò commosso durante un incontro che avemmo nell’estate 1983, sono riportate alcune precisazioni dei fatti, così come furono riportati nel volumetto sopraccitato, in particolare per quanto riguardava la resa della brigata “Ravenna”:
27 APRILE 1945 – “Io Vescovo Giuliano partigiano della brigata ‘Gasparotto’ di Cuggiono (numero iscrizione be/41012 del 3 maggio 1940), al mattino dello stesso giorno fui avvertito da Carletto Nava (detto Caìn) che in paese circolavano tre fascisti della ‘Brigata Ravenna’. Provenivano dalla Val d’Ossola e intendevano dare manforte ai Tedeschi che credevano di trovare qui a Turbigo. Il contatto non avvenne poiché gli stessi Tedeschi, alle 24 del 26 aprile, avevano abbandonato il paese per rifugiarsi al campo d’aviazione di Lonate Pozzolo.
A questo punto io andai dal compagno Libero Pedranti e lo misi al corrente dei fatti, ma questi non volle sapere nulla e mi licenziò dicendo che i Tedeschi erano falsi e che sarebbero ritornati. Pertanto non volle intervenire. Allora decisi di rivolgermi al parroco di Turbigo, don Edoardo Riboni, uomo già anziano e lo pregai di spalleggiarmi e di venire con me alla Cava Seratoni per imporre la resa alla brigata nera (…). Insieme ad altri che si aggiunsero cammin facendo arrivammo all’Osteria Bellaria dove fummo fermati da avamposti repubblichini che ci domandarono quali intenzioni avessimo e, a nome di tutti, risposi che io, capo dei partigiani di Turbigo e don Edoardo ci saremmo avviati a parlamentare con il comandante della Brigata.
Quando il Comandante seppe che io avevo fatto circondare il paese dai rinforzi della ‘Brigata Altomilanese’ accettò immediatamente la resa a una condizione e cioè che io, partigiano, rimanessi in ostaggio ai repubblichini nel frattempo che lui avrebbe valutato e firmato le condizioni di resa.
Mandai don Edoardo, Giovanni Petroli, Vincenzo Bossetti e Carlo Dilani, con il comandante della Brigata Nera a firmare la resa in municipio, dando il permesso di firmare tale resa a nome mio. La cosa era possibile anche dal fatto che il giorno prima era stato nominato Sindaco Luigi Bianchini ed era stato ufficialmente istituito il C.L.N. (Comitato di Liberazione).
Altra condizione che aveva posto il Comandante era stata quella che, se non fosse ritornato entro 45 minuti, io, Vescovo Giuliano, sarei stato fucilato dai repubblichini. Purtroppo i 45 minuti passarono e dopo 53 minuti arrivò la Balilla con il Comandante il quale aveva firmato la resa incondizionata. Mi venne incontro e vedendo che avevo subito delle violenze mi chiese i motivi e subito diede ordine che i suoi camerati fossero disarmati ed egli stesso mi consegnò la sua pistola calibro 7,65 e la bandiera. Incolonnammo la Brigata ed io, Giuliano Vescovo, la condussi presso il C.L.N. alla villa Gualdoni di via Volta a Turbigo.
30 APRILE – In tale data venni rintracciato da Libero Pedranti il quale mi disse che, poiché con don Edoardo avevo fatto accettare la resa ai fascisti della Brigata ‘Ravenna’ dovevo accompagnarli a Busto Arsizio al Comando del C.L.N.. Gli risposi che ero stanco e che risentivo ancora delle botte che mi avevano dato, ma a nulla valsero le mie parole in quanto mi trovai, dal Pedranti, obbligato a tale azione.
Arrivati al punto indicatomi dal Pedranti, il camion su cui viaggiavo con i fascisti venne bloccato da quattro partigiani garibaldini che chiesero chi fosse il partigiano Vescovo. Non appena mi feci riconoscere mi presero e, con brutti modi, e cioè con calci e pugni, mi portarono in un ampio salone, dove c’erano molti fascisti seduti come scolari e mi consegnarono a chi stava seduto in aula con una funzione da giudice. Comunque, prima di entrare, ebbi il tempo di avvisare un mio partigiano, di nome Pierino Perotta (Chèf), dicendogli di andare a chiamare il colonnello Vignati, capo dei partigiani.
Il Pierino Perotta così fece e dopo circa mezz’ora nell’aula arrivò il colonnello Vignati che mi fece subito spiegare che cosa era accaduto. Mi fece restituire il portafogli e le armi testimoniando che ero un partigiano della Brigata ‘Gasparotto’. Ritornai così a casa accusando sulle spalle il pesante fardello di percosse subite e giunto a Turbigo incontrai il Pedranti che si meravigliò di vedermi.
Seppi, molti anni dopo, nell’agosto 1965, dell’individuazione da parte di Pierino Perotta, del capo dei quattro garibaldini che volevano eliminarmi e che tale ordine era stato dato da Libero Pedranti di Turbigo. Aggiungo che, a comprova dei fatti esposti, sono pronti a testimoniare Pierino Perotta, abitante a Turbigo in via Roma, 10 e Carlo Milani, abitante a Turbigo in via Enrico Fermi, 18”.
Questa la lettera che mi consegnò brevi manu il signor Giuliano Vescovo nell’estate 1983 all’uscita del volumetto che ricostruita le vicenda tra il 25 luglio 1943 al 2 giugno 1946. Pensiamo, in questo modo, di rispettarne la volontà visto che allora promettemmo che la sua verità sui fatti l’avremmo pubblicata in una delle prossime occasioni. E così fu. La lettera, oltre che da Giuliano Vescovo risulta firmata da altri turbighesi, dei quali riconosciamo i nomi di Donato Gaiera, Pierino Perotta, Felice Colombo, Luigi Gambero, Dionigi Viscardi, Romano Pastori, Aurelio Solivardi.
La pubblicazione successiva della lettera su Contrade Nostre, creò, nostro malgrado (perché fummo solamente il tramite della volontà del Vescovo), un altro caso che venne precisato nella seguente missiva ricevuta dalle figlie di Libero Pedranti, che qui sotto pubblichiamo:
12 MARZO 1991 – “Siamo le figlie di Libero Pedranti e solo di recente siamo venute a conoscenza di quanto la rivista “Contrade Nostre” nel numero 33/1990, da lei edita e curata, contiene. In essa è, infatti, riportata una lettera di Giuliano Vescovo, datata 30 giugno 1983, con la quale si accusa apertamente nostro padre di essere stato mandante della eliminazione dello stesso Vescovo.
Dire di essere indignati è dir poco, e non solo per quanto detto dal Vescovo, ma anche per il suo comportamento, signor Leoni, sia come uomo che come ‘storico’. Non è corretto aspettare che tutti i possibili protagonisti e testimoni scompaiano per uscire con notizie di cui nessuno può più provare la veridicità, e consegnare così delle calunnie alla storia.
Noi non sappiamo cosa può aver spinto Vescovo, che ricordiamo per i normali e corretti rapporti sempre tenuti con nostro padre, a rendere lei depositario di un si’ grande segreto, con una lettera piena di rancore, mistificazioni e vanagloria. Non lo sappiamo e purtroppo non glielo possiamo più chiedere.
Ma lei, signor Leoni, che cosa l’ha spinta a pubblicare simili ingiuriose affermazioni, senza aver cercato, e di tempo ne ha avuto, verifiche e controprove, senza aver sentito il bisogno di ‘conoscere’ l’uomo che si apprestava a diffamare e bollare come assassino?
Lei dice di aver pubblicato la lettera per rispettare la volontà di Vescovo. Ma quale volontà? Se quella di Vescovo era far conoscere la verità perché ha aspettato così tanto? E lei, perché ha aspettato altri 8 anni? Se Vescovo, fin dal 1965, era venuto a conoscenza, da Pierino Perotta, del nome del “capo dei quattro garibaldini che volevano eliminarmi per ordine del Pedranti”, perché rivela tutto quando “il Pedranti”, morto nel 1981, non può più sconfessarlo?
E lei che, per ricevere brevi manu la lettera, deve aver parlato a lungo con Vescovo, non ha chiesto quel nome?Non ha cercato di sapere perché mai “il Pedranti” avrebbe dovuto volere l’eliminazione del Vescovo? Quale poteva essere il movente?
Ci creda, ipotizzando per assurdo che nostro padre abbia mai potuto in vita sua condannare a morte qualcuno, noi abbiamo cercato in tutti i modi di individuare qualche movente, ma sinceramente non ne abbiamo trovato nessuno, sia pur minimamente plausibile”.
IL 29 APRILE ARRIVARONO GLI AMERICANI – Durante i giorni 28 e 29 aprile i brigatisti neri rimangono confinati nelle baracche della cava Seratoni e il giorno 30 aprile vengono consegnati al Comando Partigiano Alta Italia di Busto Arsizio come si evince dai fatti raccontati qui sopra e, in particolare, dalla lettera di Giuliano Vescovo ( in seguito molti ‘repubblichini’ della ‘Ravenna’ vengono uccisi come abbiamo documentato nel libro ‘Fascisti, partigiani, repubblichini nel Castanese . La seconda linea gotica, 2012).
Nel frattempo, e precisamente il 29 aprile, alle ore 16, le truppe americane arrivano a Turbigo. Si fermarono in piazza S. Francesco con i carri armati e poco tempo dopo ripresero la strada per Milano. C’è ancora chi si ricorda dell’evento, Erminio Motta, classe 1937, attuale presidente dell’associazione delle Famiglie Dispersi in Guerra.
NOTE
Ulteriori approfondimenti dei temi trattati in questo articoli sono stati pubblicati sui seguenti libri:Fascisti, partigiani, repubblichini nel Castanese . La seconda linea gotica, 2012; Su quella che fu la Resistenza – partigiani e patrioti, 2014.
1 – Successe che un signore milanese di 60 anni, rovistando tra le vecchie carte ingiallite della madre appena defunta, trovò un libretto di lavoro dal quale risultava che, all’inizio del 1942, aveva servito nella Mensa Ufficiali tedesca di Turbigo. E in lui, orfano di padre e tenuto all’oscuro della storia giovanile di sua madre, nacque il sacro furore della ricerca delle sue origini. E allora prese il treno delle Ferrovie Nord e giunse in paese. Gualtiero era un tipo espansivo: aveva fatto l’autoferrotranviere per una vita a Milano e quindi aveva una grande facilità nei rapporti interpersonali. Chiedeva alla gente che incontrava dove fosse la Mensa Ufficiali dei Tedeschi in paese. Nessuno lo sapeva precisamente, come non risultava nemmeno chiaro se – già all’inizio del ’42 – i Tedeschi si fossero già insediati in paese. Il 1942 è importante perché Gualtiero nasce proprio alla fine di quel fatidico anno. Lo abbiamo incontrato, allora,0 e ci ha mostrato una sua foto nella quale aveva pochi mesi in braccio alla balia (Maria Bottiani) che abitava in via Fredda a Turbigo.
Sappiamo anche che famiglie Bottiani (presenti ancora oggi a Turbigo) ne esistevano parecchie a Turbigo. A quel tempo c’era però una Bottiani Dendena Maria fu Giuseppe nata nel 1885 ed abitante in via Fredda, 39 che probabilmente fu la balia del nostro Gualtiero. Bottiani ce n’erano allora anche in via del Grano, in via Monte Nero, in via S. Michele, in via S. Vincenzo.
FOTO di Luisa Vignati: il monumento dei partigiani a Fondotoce (Verbania)