Cari amici,
con grande piacere pubblico il testo che Vittorio Raschetti ha scritto su Carlo Cecaro. Ricordo a tutti l’appuntamento al Mi.Mu.Mo.:
Carlo Cecaro al mimumo MICROMUSEOMONZA
giovedì 16 – mercoledì 22 marzo 2017
Via Lambro, 1, 20900 Monza MB
Non avrai altra truffa fuori di me
Carlo Cecaro è un cecchino a tempo pieno, sempre appostato, che mira alle menzogne e all’ipocrisia che combatte instancabilmente con motti di spirito e fantasia: dotato di occhi vigili come un insonne rapace notturno, sa vendicare la verità con pallottole di pura poesia esplosiva.
L’intransigenza fredda e chirurgica nella diagnosi del presente fa dell’artista un censore assetato e spietato, un incorruttibile moralizzatore, un ironico e pirotecnico creatore di giochi di verità in grado di smascherare l’insostenibile ambiguità dei costumi morali svelata in tutti i suoi travestimenti e paludamenti linguistici. Carlo Cecaro è un infaticabile voyeur delle malefatte del potere mediatico e dei vizi del compromesso morale, è testimone attento, preciso, asciutto e sintetico del non-sense della macchina del pensiero unico. Provocatorio, arrabbiato, algido, mostra con il suo lavoro artistico che l’intelligenza è un dono non muscolare, ma fondato sulla concentrazione inesauribile dell’ostinazione. Come il protagonista del film Taxi driver di Martin Scorsese il suo palcoscenico naturale, l’habitat emotivo delle sue routines è la paranoia urbana e l’ossessione securitaria della cittadella del potere nelle sue differenti declinazioni contemporanee.
Un funambolo del calembour sospeso sulla fune di un instabile equilibrio visivo concettuale, un giocoliere che scaglia sintagmi irriverenti nell’aria pesante del Paese, senza perdere la presa sulla realtà, senza cedere al peso della volgarità e al ricatto della menzogna. Nobile perspicacia dei pensieri illuminati dal lato ludico della lingua, voli di parole in grado di stupire e galleggiare sospese oltre il baricentro dell’ovvio e del senso comune. Fulmini di fantasia, lampi di luce di un gioco linguistico folgorante nel cielo grigio della noia del potere, un innesco perfetto per accendere una ribellione morale. Un detonatore politico ed estetico, un gesto neodadaista contro il vuoto imperante e narcotizzante delle convenzioni del sistema.
Nei suoi cartelli l’artista si è ispirato al modulo consolidato delle transazioni immobiliari tra privati, uno standard grafico brevettato così diffuso da essere ormai divenuto segno comune ed onnipresente. Un indicatore ufficiale, un regolatore del flusso di scambi commerciali e negoziazioni del patrimonio immobiliare. Questo segno abituale del panorama urbano viene impiegato per suscitare un cortocircuito semiotico di ascendenza situazionista. La forza della consuetudine e della ripetizione dell’imprinting grafico nel cartello è in grado, con la sua ostensione, grazie alla sua immediata riconoscibilità, di istituire un sistema automatico di creazione di senso implicitamente e passivamente recepito da chiunque. La familiarità con cui il lay-out grafico viene universalmente percepito induce una automatica accettazione che contribuisce ad affermare una struttura di senso non sottoposta ad analisi e smontaggio da parte del recettore. E’ proprio in questa attitudine passiva, in questo automatismo percettivo che si insinua il rasoio concettuale e la critica dell’artista con la sua operazione di decostruzione del legame apparentemente indistruttibile tra l’impostazione della struttura grafica del cartello e il suo contenuto testuale. La forza gestaltica della forma visiva si impone con una decisa prevalenza della modalità di percezione visiva su quella della lettura del testo: una sorta di dittatura del canale visivo su quello testuale. Il gesto dell’artista si insinua proprio nel punto di contatto tra questi due codici attivando un meccanismo di conflitto in grado di produrre una dissociazione tra struttura grafica, lettering e contenuto testuale. La scrittura impersonale a normografo tende ad affermarsi in modo burocratico dentro una griglia grafica per cercare di riaffermare la legalità e la credibilità delle negoziazioni all’interno nel contesto sempre più anomico e arbitrario delle relazioni negoziali sempre più dominate da asimmetrie, abusi, mala fede. I cartelli rappresentano una performance artistica, un irriverente sabotaggio, un corto circuito linguistico che genera scintille, incendiando il significato che finisce per esplodere in un non-sense di gusto solo apparentemente ludico e goliardico, ma in realtà acido e critico. Si mostra una insanabile contraddizione tra la rappresentazione grafica burocratica commerciale e la sua paradossale enunciazione linguistica. L’azione artistica si attiva innanzitutto sul registro metalinguistico ma si estende poi su un più ampio livello di lettura etico sociale. Le parole indicano la via da seguire, l’intransigenza nei confronti del linguaggio rappresenta la forma più autentica di rispetto della buona fede e della relazione con l’Altro.
Anche la scelta cromatica è efficace e significativa un’aura di ambiguità morale storicamente connota il giallo, colore del travestimento, della follia, del tradimento e con il quale si dipingevano le case dei falsari nel tardo medioevo. Il cartellino giallo ha un valore di ammonizione morale, di ultimatum, di allerta per il responsabile di un’infrazione sul campo invitando a una correzione della condotta. Il romanzo giallo è la forma narrativa in cui un ostinato investigatore si arma della pazienza della ricerca della verità cercando indizi, smascherando false testimonianze, ricostruendo i fatti e scoprendo i colpevoli.
I cartelli sono didascalie irriverenti, sono lo specchio deformante che riflettendo una realtà già degradata dal grottesco, alla fine rispecchiano una verità autentica e fedele alla realtà. L’oggetto pop dei cartelli immobiliari si trasforma in strumento per risvegliare l’immobilismo sociale e l’immoralismo etico della comunità. I cartelli non sono solo testimonianze di resistenza minimalista ma autentiche occasioni di pensiero, rappresentando non solo una diagnosi del presente ma anche tentativo di terapia del linguaggio contro la corruzione delle parole e la perdita di senso dell’agire sociale. La decadenza dei costumi morali ha origine nella generalizzata smemoratezza del senso, nel commercio levantino dei significanti e nella conseguente svendita della dignità delle parola. Ne consegue la condanna inemendabile dell’ipocrisia, della dittatura del falso, dell’intenzione malevola che irride l’innocenza e la purezza dello sguardo.
I cartelli appartengono a una azione più vasta di street art, prelevati dal loro apparente uso quotidiano e commerciale e disseminati nello spazio pubblico secondo un piano di progressiva diffusione virale si trasformano in una vera e propria installazione pubblica. Una vera guerriglia mediatica, una contro informazione pubblica non gridata, ma capillarmente distillata in oasi di poesia. Non si tratta di installazioni troppo evidenti o su scala monumentale, ma di una forma discreta di contaminazione del paesaggio urbano minimale ma pervasiva. Apparizioni improvvise in luoghi a volte appartati, come funghi spuntati nel sottobosco, non avvelenati, ma commestibili e adatti a nutrire di pensiero la distrazione dello sguardo di passaggio. I cartelli di Carlo Cecaro non intendono imporsi all’attenzione pubblica come gli affiches pubblicitari, insieme grandi ed effimeri, ma preferiscono lasciarsi scoprire lentamente grazie all’acutezza e alla raffinatezza del loro tono. Si sedimentano nel tempo lento e proliferano come forme vegetali pervasive e rampicanti, restituendo ossigeno al respiro morale dello spazio urbano. Sono disperse nella città per mobilitare nuove sensibilità. Sono opere sensori pronte a cogliere le variazioni di umori della città. Sono opere che catalizzano il desiderio di trasformazione antropologica. Sono come una dose omeopatica di inquietudine somministrata alla città che finisce per curare dalla stessa inquietudine.
Il tratto miniaturistico, preciso, accurato e ossessivo si lascia apparire nel carattere mimetico e dettagliato dei microcosmi delle opere di Cecaro, universi anarchici microscopici apparentemente spensierati ma, ad uno sguardo più ravvicinato, pronti a rivelare i tratti distopici di allegorie di mondi inabilitabili.
Cecaro è un corsaro coraggioso lanciato all’arrembaggio della nave ubriaca del potere guidata dalla corruzione del significato. I suoi cartellini uncinati si agganciano allo scafo e diventano un inestirpabile stigma morale, come lettere di condanna tatuate nell’inchiostro indelebile dell’ironia, direttamente sulla pelle dei protervi capitani insipienti e noiosi che infestano l’osceno oceano del presente. Come Buster Keaton nelle sue pantomime, Carlo Cecaro lotta contro ogni genere di ostacolo, dalla truffa al plagio, superando la barriera del silenzio frapposta tra l’eroismo della protesta e il trionfo della verità, come l’artista del vaudeville è un acrobata del linguaggio, si diverte e diverte mantenendo un volto serio e imperturbabile. Come gli inserti di cartelli nel cinema muto, esistono parole irrinunciabili, che occorre assolutamente mostrare perché indispensabili per comprendere il senso degli eventi nel corso silenzioso dei fatti.
La truffa è il reato fondato sulla creazione di un inganno, una falsa rappresentazione della realtà che induce in errore spingendo la vittima a compiere atti contrari alla propria volontà, si tratta di una fattispecie particolarmente odiosa perché produce un lacerazione irreversibile nella fiducia tra persone, un danno inestimabile nella qualità di vita di una comunità, un tradimento mortale della possibilità di vivere autentiche relazione umane.
Il cartello truffasi viene brandito in performance pubbliche dove l’artista come un uomo sandwich della pubblicità come un flaneur passeggia tra la folla ostentando cartelli dal contenuto paradossale. Il cartello truffasi per la sua natura costitutiva autoreferenziale, può essere interpretato anche secondo una referenza interna al mondo dell’arte, come una critica al sistema commerciale della creazione del valore nell’arte contemporanea: si tratta di un livello di critica diretta allo statuto ontologico dello stesso messaggio veicolato dal cartello che sembra agire allo stesso tempo secondo un registro di duplice legame contradditorio generando una sorta di dissociazione interna, da una parte il cartello si auto-propone come opera d’arte concettuale e performativa, allo stesso tempo suggerisce con il suo messaggio la distruzione del proprio status di opera d’arte. Truffasi si propone dunque come opera d’arte che si dispone secondo un livello di riflessione interna sul senso stesso della propria condizione di credibilità innescando un processo di enunciazione che rinvia alla propria auto-distruzione in quanto opera d’arte di valore.
L’artista Carlo Cecaro non ha solo prodotto una street art itinerante ed eccentrica rispetto ai luoghi deputati della fruizione dell’arte, ma ha anche trovato un proprio luogo preferenziale, il Ponte degli Artisti di Porta Genova a Milano, una passerella in ferro trasformata in una nicchia privilegiata, un punto di passaggio teatrale, un landmark urbano provvisto di un genius loci particolare dove i micro cartelli si sono disposti secondo una disseminazione ed una stratificazione temporale che ne ha valorizzato il carattere estetico di insieme e la forza modulare in chiave pop, a questo si è aggiunta una moltiplicazione di varianti, una ripetizione differente di stilemi dove ai messaggi e pay-off critici e dissacranti, si sono aggiunti anche testi più lirici e sognanti.
Nel dispositivo linguistico impiegato iterativamente dall’artista nei suoi cartelli si riscontra in modo iterativo una desinenza in si, malgrado il tono pessimista e amaro, sembra riaffiorare un desiderio inconscio, un estremo, quasi sussurrato, tentativo di ottimismo della volontà, come nobile risposta alle disillusioni dell’esistenza.
Vittorio Raschetti