«Lo stupro è un atto peggio, ma solo all’inizio, poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale»: queste sono le parole, riportate alla lettera, di Abid Jee, studente di Giurisprudenza e mediatore culturale. Il post su Facebook, a commento della violenza di gruppo accaduta a Rimini, è stato opportunamente cancellato, ma ormai il danno è fatto e la cooperativa presso la quale lavora Jee ha giustamente avviato un procedimento disciplinare verso il suo dipendente.
La bestialità scritta si commenta da sé, eppure fa riflettere, perché troppe volte la violenza, di qualsiasi tipo, è giustificata da improbabili avvocati del diavolo non all’altezza del compito che si sono affidati. La violenza sessuale in particolare è stata spesso minimizzata con gli espedienti più assurdi e, con un bizzarro rovesciamento dei ruoli, la vittima diventa una sorta di “agente provocatore”, colpevole, in modo più o meno esplicito, quanto il suo carnefice.
Chiunque dovrebbe essere consapevole che, durante uno stupro, non «si gode come un normale rapporto sessuale» perché è un atto di sopraffazione ed è anche un crimine, dal 1996 contro la persona e non solo contro la morale. Tale riconoscimento è arrivato sicuramente tardi, nonostante i progressi compiuti in termini giuridici durante gli anni Settanta del secolo scorso, durante i quali la legislazione riflette e cristallizza, seppur con poca celerità, il cambiamento di mentalità che si afferma in Italia a partire dal decennio precedente. D’altronde, la sensibilità collettiva e il riconoscimento pubblico di particolari istanze non vanno necessariamente di pari passo, come dovrebbe sapere uno studente di Giurisprudenza consapevole- e non è il caso di Jee-. Infine, avere empatia è il minimo sindacale richiesto a chi si occupa di mediazione culturale.