Nata, e vissuta per 20 anni, a Torino in Corso Giovanni Agnelli, quello che dal centro città fila dritto dritto, come solo i bei viali torinesi sanno fare, in bocca agli stabilimenti di Mirafiori, dove mio padre ha lavorato per 40anni. Poiché sono cresciuta a pane e Fiat, voglio condividere le mie riflessioni personali su Sergio Marchionne, conosciuto ai più per essere Presidente della Ferrari dal 2014, mancato ieri a 66 anni per complicanze post operatorie di un intervento alla spalla. Era giunto a Torino, per far parte del CdA Fiat, nel 2003 chiamato dall’allora Presidente Umberto Agnelli, quando l’azienda sembrava in fase di stallo e quasi incapace di uscirne e di affrontare le sfide a livello mondiale con le grandi case straniere. Nel 2005 divenne AD di Fiat Group e poi nel 2013 di Fiat Auto, iniziando, e portando a termine, una vera rivoluzione, che modificò definitivamente l’assetto aziendale del Gruppo Fiat, ma anche i rapporti coi sindacati e con le maestranze. Quando nel 2014 andò in porto il suo progetto di fusione “transfrontaliera” con Chrysler per dar vita a FCA Fiat Chrysler Automobiles e la sede legale del gruppo automobilistico torinese venne portata in Olanda, io da Torinese e Italiana, ne fui enormemente dispiaciuta.
Allora l’economia formale mostrava al mondo, e ai piccoli azionisti come me e papà, che la Fiat era la nuova padrona, che la terza azienda americana era controllata da un’italiana, ma l’economia reale dimostrò presto che Fiat (la Fiat di Torino, di Agnelli e, come piaceva dire in questo Paese, la grande industria degli italiani) era diventata una filiale di una grande azienda americana, soggetta agli alti e bassi di un altro mercato in cui contavamo meno di niente. In altre parole: ottimo affare per alcuni azionisti, e per alcuni manager. L’Italia invece perse per sempre la Fiat. Ma Sergio Marchionne, seppur italiano, non era un tipico manager italiano: la sua storia personale e la sua formazione tecnica ne avevano fatto un uomo della globalizzazione e, da un punto di vista economico-finanziario, ci aveva visto giusto , infatti i mercati gli diedero ragione anche sul medio termine.
Per costruire il grande gruppo internazionale FCA cambiò radicalmente le regole del lavoro italiane . Nel corso della sua gestione, Marchionne ha stilato una lista di stabilimenti FIAT da chiudere o ridimensionare, fra i quali quello di Termini Imerese in Sicilia, che occupava quasi 2.000 dipendenti, ed era cronicamente in perdita. A cavallo tra gennaio e febbraio 2010, su questo impianto, ci fu un aspro dibattito tra i vertici della casa automobilistica torinese e il Governo italiano, discutendosi sia dell’opportunità di tenere aperto lo stabilimento siciliano, sia degli incentivi statali da devolvere al settore auto. Nel 2011 la sua visione di essere più competitivi con le grandi case automobilistiche straniere, introducendo il criterio meritocratico a fianco dell’efficienza e della produttività, implicò la decisione di uscire da Confindustria e contrattare direttamente le regole di lavoro con sindacati e maestranze. Ci fu anche un referendum tra i lavoratori che spaccò il sindacato , fece enorme scalpore e modificò i contratti di lavoro di centinaia di dipendenti, per rendere più efficiente e competitiva la produzione. Significava che Fiat voleva avere mano libera nella gestione dei rapporti sindacali, senza tener conto degli accordi fatti da Confindustria. Marchionne voleva applicare in pieno le possibilità offerte dall’art.8 del DL 138/2011, che gli avrebbe consentito di derogare alle norme previste dai contratti nazionali collettivi di lavoro e soprattutto ottenere quello che lui chiamava “il controllo degli impianti”, cioè ” una gestione dei turni di lavoro più efficiente e adeguata al mutare delle condizioni del mercato” e ampia flessibilità su assunzioni, part-time e cassa integrazione da concordare eventualmente solo coi rappresentanti della fabbrica.
Molti, nelle ore precedenti la morte, sono stati i suoi detrattori, scatenati sui social , oltre ogni regola di pietas. Abbiamo sentito Sergio Capizzano, quadro di 7liv, ( in Alfa sud dal sett. 1971 come progettista della scocca fino al 1990 a Pomigliano, poi in Fiat Napoli e quindi in Elasis, centro ricerche, dal 2003 fino al 2009 per istruire le nuove leve, che ha lavorato anche negli stabilimenti di Arese, Cassino, Mirafiori e Rivalta.) che su Marchionne ci dice .” Ha salvato un’azienda che era in crisi, rendendola di nuovo competitiva a livello mondiale.” E Michele Moramarco, che lavora al reparto verniciatura della Fiat di Melzi da 24 anni.”Mi fa rabbia leggere tanti commenti irosi su un uomo che ha salvato un’azienda”. Fausto Bertinotti, ex leader di Rifondazione Comunista così lo ricorda: “L’ex amministratore delegato ha rappresento la transizione del capitalismo dal Novecento italiano a quello della globalizzazione. Questa purtroppo è una delle conseguenze della fine della politica. I partiti di un tempo ordinavano la discussione pubblica e le ponevano dei limiti. Non si attaccava mai qualcuno sul piano personale. Si discuteva di ciò che le persone rappresentavano. Si discuteva del capitalista, dell’imprenditore, del padrone. Ma non si attaccava mai la persona.”
Nei miei ricordi rimangono anche le sagaci e perfette imitazioni di Crozza del “manager con pullover” e la satira bonaria della Littizzetto ( torinese, con un padre dipendente Fiat, come me). Ora che “Marchion” non c’è più e al suo posto è stato nominato un manager inglese ( sicuramente indicato da lui, per la successione) i dubbi di tutte/i noi, comuni mortali, sul futuro della FCA sono legittimi, ma soprattutto lo sono quelli di tutti e tutte i/le dipendenti degli stabilimenti italiani di quella che vogliamo ancora considerare ” La maggior fabbrica italiana“.