BUSCATE – Lo spettacolo di Nora Picetti (figlia di un dipendente dell’Enel) ha il pregio di scandagliare a fondo il mondo in cui questa ‘parola’ è protagonista. Una rappresentazione – quella che andrà in scena venerdì 28 settembre, alle 21, presso la Sala Civica di Piazza della Filanda a Buscate – che punta l’indice accusatore su questo ‘veleno’ che ancora oggi è nell’aria che respiriamo.
Colgo l’occasione di questo ‘pezzo’ per ricordare un mio amico, Alfonso Bianchini, stroncato dieci anni fa a 56 anni da un mesotelioma pleurico, il cancro dell’amianto.
LA STORIA DI ALFONSO – La vita lo aveva portato a diventare un pezzo grosso della Renault a livello europeo: girava tutta l’Europa, meeting di qua incontri in tante capitali europee. Però, tutte le domeniche mattina, metteva dentro la testa a casa mia per un caffè, per chiedere notizie fresche di paese…Poi si finiva sempre a parlare di politica: lui di sinistra, chi scrive un po’ meno. Già allora c’era il problema dei migranti (“L’uomo si è sempre spostato nei tempi”… diceva), lui favorevole alle porte aperte, chi scrive molto meno.
In una di quelle domeniche mattine mi disse che aveva un dolore ad un fianco e che sarebbe andato a farsi vedere il lunedì successivo. Qualche tempo dopo la diagnosi: mesotelioma pleurico. La causa, aggiunse, era il lavoro fatto in centrale con un’impresa nella ricottura delle tubazioni di alto spessore per la costruzione di alcuni gruppi della centrale termoelettrica di Turbigo. Allora si maneggiava l’amianto verde il più terribile e cancerogeno…Ma questo era avvenuto trent’anni fa e fu proprio in quell’occasione che ci conoscemmo, perché lavoravamo entrambi in centrale.
Amante della Valsesia, benché malato, aveva comprato una baita, o meglio “un panorama bellissimo”. Nel novembre 2004, in un periodo in cui stava bene, volle portarci a vederla. Ci caricò in auto e ci portò in Valsesia: voleva mostrarci la baita che aveva comprato, ma più ancora il panorama…(foto)
Alfonso ha affrontato il male come un guerriero con una profondità di conoscenza delle questioni sanitarie che lasciava meravigliati. Probabilmente, nella vita, aveva affrontato tutto con la stessa serietà per arrivare dov’era arrivato. All’ultimo appuntamento aveva aggiunto la coscienza di quella che aveva chiamato ‘la morte prevista’. “Nessuno – ci disse – supera i cinque anni di vita dalla diagnosi. E lo sai che cosa mi dispiace: non veder più spuntare l’erba l’anno prossimo”.
Continuava a passare a casa, ma con minore frequenza. Il 15 ottobre 2005 salì ancora in sala per l’ultima volta, ma non volle bere il caffè.
– “Come va?”, gli dissi
– “Male”, mi rispose. Domani devo andare al Policlinico di Milano per una Tac. Mi hanno trovato ancora qualcosa che non va (aveva appena terminato il primo ciclo di chemioterapia e sperava di star bene almeno per un po’). Dopo queste parole, negli incontri successivi, nessuna lamentela, anche se lo abbiamo visto soffrire terribilmente. Andavamo a trovarlo tutti i giovedì, perché sapevamo che gli faceva piacere (è capitato che ci telefonasse se non ci facevamo vedere), fino agli ultimi giorni, fino a quando è suonata la campana…