Il 4 novembre del 1918 l’Italia cessò ogni operazione bellica. La Grande Guerra era finita. Una nota del generale Diaz ufficializzò che il conflitto contro uno dei più potenti eserciti del mondo (quello austro-ungarico) era stato vinto.
Nel 1861 si fece l’Italia ma quel 4 novembre si fecero gli italiani.
L’orgoglio nazionale crebbe, avevamo vinto la guerra ed eravamo pronti a far valere la nostra pretesa di attuazione del “Patto di Londra”; si sarebbe concluso il processo di unificazione nazionale con l’annessione dell’Alto Adige, della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia.
Al di la di come si sia poi conclusa la conferenza di pace tenutasi a Parigi nel ’19, è importante chiedersi come il nostro paese arrivò a questa vittoria.
Non a caso, è necessario fare un excursus a qualche anno precedente, esattamente al 1917.
Il 24 ottobre l’Italia subì quella che, nei primi decenni del secolo, fu riconosciuta come la più grande e disastrosa sconfitta, la disfatta di Caporetto.
Un paese giovane come l’Italia fu messo a dura prova. Lo sconforto dilagò, l’esercito dovette superare una profonda crisi.
I vertici del comando furono sostituiti e Armando Diaz prese il posto di Luigi Cadorna.
L’Italia seppe rialzarsi, seppe reagire e vincere la guerra, si ribaltò una situazione che sembrava scontata; ma chi furono i veri artefici della vittoria? Chi si sacrificò per la patria?
Già nei primi quattro mesi del 1917 furono chiamati alle armi i primi 80.000 “ragazzi del ‘99” (1899), neanche diciottenni e magari non avendone vera consapevolezza, partirono, lasciarono le famiglie e andarono a combattere per il loro paese.
È proprio su questi giovani che credo sia importante riflettere in occasione del centenario della vittoria italiana, che ricorrerà il 4 novembre 2018.
In famiglia, anche io ho uno di questi famosi ragazzi, un pro-prozio di cui sono riuscito a raccogliere qualche informazione dall’archivio di stato di Milano. Carlo Alzani, matricola 105580, nacque il 19 maggio 1899 e morì il 30 dicembre 1917, appena diciottenne, probabilmente caduto sotto una scarica di mitragliatore. Partì nel giugno del ‘17 da Turbigo, in provincia di Milano, che non aveva ancora raggiunto la maggiore età, un contadino, biondo, occhi castani, alto 1,62m. Un ragazzo comune per l’epoca. Non vide mai la vittoria italiana.
Alle ore 17:00 di quel lontano 30 dicembre, nell’ospedale da campo n° 0102 (che secondo alcune ricerche era d’istanza a Schio in provincia di Vicenza) veniva constatato il suo decesso, causato da ferite alla faccia con perdita degli occhi, al torace, all’arto superiore destro.
Così, lo zio Carlo si è guadagnato un posto nell’Albo d’Oro dei caduti della prima guerra mondiale.
È di facile immaginazione il vuoto che la sua dipartita possa aver lasciato nella famiglia.
Bella è la rappresentazione delle madri dei “ragazzi del ‘99” evocata da D’Annunzio nel suo testo “Alle reclute del ‘99” con cui li esortava a partire per la guerra. La madre “Vi si strappa dal fianco e vi manda a combattere. Se è forte non piange. Se cede allo schianto, nasconde le lacrime. Vi dice: ”Va figlio. Non si può non vincere, non si può non morire”.
Chiaro è il vuoto che veniva lasciato da questi giovani, a livello affettivo si perdevano dei figli ed inoltre, da un punto di vista economico, si perdevano delle braccia che avrebbero aiutato a sostenere l’intera famiglia.
Più profondi sono i motivi che oggi, a distanza di 100 anni, devono muovere le coscienze a rendere onore ai nostri caduti.
Per molto tempo mi sono chiesto che cosa potessero rappresentare per il nostro paese dei comuni ragazzi di campagna; fino a che non mi sono imbattuto in una frase del generale Armando Diaz che regalò alla nostra nazione un’immagine particolare di questi giovani: “Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora”.
Particolare è l’immagine dei ragazzi che “cantano”, questo cantare rappresenta l’entusiasmo che solo le giovani generazioni hanno nell’affrontare la vita.
Dunque, forse nei “ragazzi del ‘99” speciale fu l’entusiasmo che permise di arrivare al fronte e diede la forza di respingere l’esercito avversario, costringendolo alla resa.
Questi nostri connazionali sono esempio del popolo italiano che fu in grado di unirsi e superare le difficoltà.
Il loro sacrificio però non si ferma a quel lontano 1917, è un sacrificio più che mai attuale.
Sono convinto che abbiano lasciato un importante insegnamento ai giovani d’oggi. Questa loro testimonianza, che il 4 novembre riecheggerà nella memoria di ogni italiano, ci insegna che anche noi abbiamo la capacità di dare un contributo importante al nostro paese.
Dal volontariato all’impegno politico possiamo metterci a fianco degli adulti per decidere sul nostro futuro e dare soluzioni ai problemi contemporanei.
Forse questo è un modo di rileggere il sacrificio dei molti “ragazzi del ‘99”, un invito ad accettare la sfida, a battere le paure che a volte ci bloccano.
Il timore di esser troppo piccoli, la mancanza di speranza e prospettiva di fronte ad un futuro troppo incerto, talvolta allontanano i giovani dall’impegno sociale. L’esempio di chi fu prima di noi deve dare una scossa alle nostre coscienze.
Vero, magari quei giovani non ebbero altra scelta che il dover partire per il fronte ma sta a noi non vanificare il loro operato. Ebbero paura ma credettero di poter dare un contributo concreto e vinsero contro chi allora era il nemico più temuto.
Oggi, dei comuni ragazzi di campagna sono divenuti l’orgoglio di una nazione. Per far si che tutto questo non resti solo reminiscenza del passato e ricordo della vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto, bisogna tornare orgogliosi di noi stessi, del nostro paese, dando il nostro contributo per migliorarlo e ricostruirlo.