ACHILLE COLOMBO CLERICI SCRIVE: Nell’epoca della comunicazione emotiva fa bene alla nostra riflessione soffermarsi sui dati. I quali affermano che l’Italia non è un Paese di giovani e per giovani. Secondo Istat la recessione demografica cominciata nel 2015 ha registrato lo scorso anno un calo numerico riscontrabile soltanto nel biennio terribile 1917-18, quando la prima Guerra mondiale/europea e l’epidemia di febbre spagnola – una forma perniciosa di influenza – causarono un milione e 200mila morti.
Secondo i dati provvisori relativi al 2018, sono nati oltre 439 mila bambini, quasi 140 mila in meno rispetto al 2008. Ma c’è di più: il 45% delle donne tra i 18 e i 49 anni (qui i dati si fermano al 2016) non ha avuto figli.
Neppure le contestate immigrazioni sembrano in grado di dare il segno più alla demografia nazionale.
Le prolifiche genti provenienti dall’Africa (che ha sfiorato il 3% di incremento demografico annuo, il che implica il raddoppio della popolazione in 23 anni) si adattano presto a questo aspetto della cultura occidentale riducendo di molto la natalità. Perciò, sempre secondo Istat, in Italia, dai 60,6 milioni di abitanti del 2017 si scenderebbe, nel 2065, ai 54 milioni, immigrati compresi.
Le conseguenze sarebbero molto serie. Per citare, il welfare attuale andrebbe in crisi. Considerando che la vita media si alzerebbe di oltre 5 anni per entrambi i generi, avremmo una popolazione sempre più anziana e quindi bisognosa di maggiori cure e più costose. Il minor numero di popolazione attiva non consentirebbbe di pagare le pensioni (i segnali sono evidenti già oggi): di per sé, la riduzione degli attivi sul totale della popolazione frena la crescita.
Si aggraverebbe inoltre il divario nord-sud poiche’ si prevede uno spostamento del peso della popolazione dal Mezzogiorno al Centro-nord del Paese.
Purtroppo il Paese non solo è vecchio, ma allontana anche i propri giovani e non si attrezza per attrarne dall’estero. Nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni, il tasso di disoccupazione è del 16%, contro il 4% tedesco e il 10% francese. Il tasso di occupazione è al 62%, venti punti percentuali sotto la Germania. Nel frattempo, nell’ultimo anno, 120 mila giovani, in gran parte laureati o comunque qualificati, se ne sono andati, mentre siamo in fondo alla classifica Ocse che misura l’attrattività dei Paesi anche agli occhi dei giovani.
Pesano la dimensione e la frammentazione settoriale delle imprese, l’insufficiente apertura del sistema universitario, la qualità della vita non soddisfacente, la carenza delle infrastrutture di trasporto e urbane, di scuole internazionali e di condizioni favorevoli per l’inserimento sociale dei nuclei familiari, l’inadeguata offerta alloggiativa, le incerte prospettive sul futuro.