Francesco Rosi in una complicata conversazione consente a Salvo Randone di uscire dall’impasse facendogli pronunciare le seguenti parole di estrema e quantomai efficace sintesi “in politica l’unico grave peccato è quello di essere sconfitti”. Parafrasando il grande maestro tento anche io di sintetizzare una convinzione nella quale credo sempre più, ovvero che “L’unico grave peccato in arte è la banalità”. In altre parole la banalità è la frontiera che delinea l’arte e la non arte da tutto il resto.
In arte, spesso, le opere banali hanno bisogno di occupare molto spazio per tentare di compensare con un effetto speciale visivo il piano sul quale sono fortemente carenti.
Ecco allora vedere un dito medio gigante, una scarpa o un naso occupare lo spazio di un’intera piazza.
Altra caratteristica delle opere banali è il fatto che si somigliano tutte.
Spesso cercano di affrontare direttamente temi sociali senza capire che l’arte se è tale, svolge una funzione sociale a prescindere dal tema che affronta, semplicemente perché eleva e migliora la persona.
Questa è l’epoca delle installazioni, si occupano grandi spazi con opere prive di messaggio sperando di colpire con l’effetto spettacolare delle dimensioni.
Fortunatamente però la banalità è innocua, può produrre solo due tipi di lievi danni. Uno all’artista che l’ha realizzata in quanto gli ha sottratto tempo a cose nelle quali sicuramente sarebbe stato più abile. La seconda riguarda lo spazio, le risorse economiche e il tempo che ha sottratto esponendo l’opera, ad artisti più meritevoli che probabilmente avevano un messaggio da veicolare.
Esistono però dei casi in cui la voglia di farsi notare può essere percepita come una vera e propria violenza. Sto parlando dell’installazione dell’artista Wolfgang Laib esposta nella Cappella Pazzi a Firenze. Volendo essere ironici e prendendo spunto dal nome della potente famiglia fiorentina potremmo dire “Laib in Santa Croce, cose da Pazzi”. L’artista ha creato una parete gialla invasiva, nulla a che vedere con lo stile di vita umile e discreto che la didascalia sostiene che lo stesso conduca. L’installazione in questione ostacola la completa fruizione di un’opera importante di Filippo Brunelleschi.
Mi tornano in mente le parole che Dino Risi pronunciò riguardo a Nanni Moretti: “Scansati e fammi vedere il film”. Ecco, in questo caso se si sposta un po’ ti chiedi quale sia l’opera.
Resta il sospetto che il disagio arrecato sia un mezzo per attirare l’attenzione su un’opera troppo debole per meritare quella location.
La contaminazione intesa in questo modo è sempre meno un valore positivo.
Gli artisti destinatari di spazi pubblici, specie in luoghi particolari come quello in questione dovrebbero avere maggior rispetto per il visitatore e per gli spazi che li ospitano.
Certa street art che grida alla dittatura così come tante installazioni usano poi un modo di imporsi violento che contraddice i presupposti e rende poco credibile l’autore del messaggio.
Mi auguro che Laib non sia uno di quegli artisti che manifestano per una società senza frontiere, contro i muri, in quanto tra me e Brunelleschi – come si può vedere dalla foto – ha eretto una vera e propria barriera, probabilmente senza accorgersene.
Purtroppo mentre scrivo questo articolo apprendo che a Miami ha fatto notizia una banana attaccata con lo scotch a una parete, mi rendo conto che questa è una battaglia persa, meglio che stasera mi riveda Le mani sulla città.